“Acqua che scorre non porta veleno”.
Solo un proverbio popolare che può suonare sinistro quando la portata degli eventi che hanno colpito una larga parte di Romagna ha reso quella regione simile alle terre del Bangladesh.
Un ciclone mediterraneo bloccato per giorni tra Appennino romagnolo e le “terre basse” in grado di scaricare fino a picchi di 300 millimetri di pioggia sui bacini del crinale non può non diventare “veleno”.
Ma si sa, la saggezza popolare dei proverbi vale solo come metafora, tentativi di catturare con l’esperienza e la memoria l’intera frammentata complessità del reale.
Memoria: ero al Cerreto, nell’Appennino Tosco Emiliano nei giorni della seconda disastrosa alluvione, quando il ciclone mediterraneo, nella sua rotazione antioraria insisteva e colpiva i versanti montuosi nonché il piano inondandoli di acqua, qualche centinaio di chilometri più a est.
L’Ortaccio, la casa di pietra dove abito quando sono in montagna ha nel nome memoria di quello che è stato in passato, prima una stalla e fienile e prima ancora l’ultimo degli orti sul limitare del paese.
Poco sopra, già arrampicato in mezzo al bosco di cerri c’è un minuscolo corso d’acqua, poco più di un rigagnolo, asciutto per dieci mesi all’anno. Raccoglie le acque piovane di un solco del terreno, una “ruga” tra due sponde secondarie di una collina chiamata Monte, forse perché tra tutti, quello attaccato al paese. Quel rigagnolo non ha neanche il nome, un fosso insomma, foss in dialetto. In questi giorni, con le finestre chiuse, non lo sento neppure gorgogliare.
Fosso grosso è il nome del primo tratto del fiume Savio: centinaia di chilometri ad est il Savio e altri 22 tra fiumi e corsi d’acqua strariperanno, inondando la pianura, facendo 14 vittime, decine di migliaia di sfollati, danni ancora incalcolabili quando una larga zona della Romagna è ora simile a una piana alluvionale tropicale.
È stato per certi versi irreale vedere dai monti una tragedia che accadeva giù in pianura. Per mio nonno e quelli della sua generazione le decine di fossi intorno al paese erano oggetto di una cura stagionale necessaria, così come per la generazione di mio padre seppur fosse stata già rapita e “presa” da un’altra vita in città. La mia generazione, dalle vite urbane e dedite a transumanze ricorrenti e privilegiate in paesi bellissimi quanto spopolati, ne ha solo conoscenza, assente ogni cura, demandata al comune, assente da decenni.
Di quel fosso, almeno un paio di volte ne ho visto gli effetti, straripamenti improvvisi fin sulla strada, grosse pietre più in basso, nessun danno. Ma occorre guardare dall’alto e moltiplicare per migliaia di fossi, luoghi, “rughe”, rive, torrenti, fiumi, vallate per potere avere un minimo di comprensione generale della tragedia romagnola. Questo un quadro possibile, visto dall’alto e dalla generazione che sono.
Comprensione, già… ma non c’è ormai tra tutti noi un diffuso imbarazzo nel provare a collocare anche questa alluvione in un contorno di comprensione? Troppe volte tra alluvioni e terremoti, troppe volte per tentativi di comprensione ripetuti e ravvicinati, alla lunga apparentemente inutili.
Eppure di fronte a grandi catastrofi “naturali” i meccanismi di comprensione, vale a dire i meccanismi per poter far ripartire la vita sono necessari, seppure sempre gli stessi: accusa/maledizione, razionalizzazione, consolazione. Sostanzialmente queste tre le strategie per un presente che possa insegnare, per un futuro che possa essere migliore.
Accusa… in un articolo comparso sul “Corriere della sera” del 24 agosto 1975, poi ripreso nel volume Lettere luterane, Pier Paolo Pasolini nel suo atto di messa in mora della classe dirigente italiana colloca tra l’altro nella lista delle imputazioni “…distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità questa gravata dalla sua totale inconsapevolezza ), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono “selvaggio” delle campagne, responsabilità “selvaggia” della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione…”
Parole lucide come lame, scabre come carta vetrata, attualissime e cinquant’anni dopo allargabili a tutte le classi in qualche modo dirigenti odierne, agli stakeholder come si dice oggi – in particolare quelli della finanza, dell’industria, del commercio –ma per estensione di causa ed effetto anche alla società dei consumi e a tutti noi consumatori.
Stupidità delittuosa della televisione scriveva Pasolini: venerdì 19 maggio durante una trasmissione su Rete 4 ho provato imbarazzo per Mario Giordano e forse lo stesso sentimento di Pasolini quando il giornalista, interrompendo, ammiccava in modo quasi negazionista alle tesi della giovane esponente di Ultima generazione. Quelle tesi erano espresse forse confusamente e in modo irruente, ma insinuare anche solo un’ipotesi negazionista dei cambiamenti climatici offendeva gli spettatori mentre avrebbe dovuto offendere chi quell’ipotesi insinuava.
Ecco, trovo a proposito geniale il nome che gli attivisti di Ultima generazione si sono scelti. E non solo per il destino di catastrofe demografica che questo nome evoca nell’immanenza degli sconvolgimenti climatici, ma perché la comprensione di quanto sta accadendo in Italia e nel mondo occidentale ha probabilmente a che fare anche con una questione generazionale.
Il 18 maggio, un podcast su “La stampa” online firmato da Massimo Giannini portava il titolo di L’Apocalisse climatica che non vogliamo vedere.
Una difficoltà a riconoscere questa apocalisse climatica che ognuno di noi può toccare con mano vivendo quotidianamente, parlando con chi abbiamo vicino; una difficoltà che credo sia soprattutto figlia del vissuto di alcune generazioni. Non quella di Pasolini e quella di mio padre, generazione che visse sulla pelle le trasformazioni conseguenti al traumatico passaggio da una società agro-pastorale a una industriale fondata sui consumi.
La generazione che ha visto da adulta il boom economico, fu per tutta la vita strattonata, confusa, trattenuta tra due mondi differenti, tra consapevolezze, rimpianti, privilegi di un nuovo presente e le sue contraddizioni.
Ne è ben consapevole ancora Pier Paolo Pasolini quando scriveva “Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone…”
Da Roma, dalla grande città che confusamente aveva abbracciato la società dei consumi Pasolini non a caso volge lo sguardo alla montagna dei paesi abbandonati.
Ma la società dei consumi non è in fondo sostanzialmente ancora la stessa di oggi? È questo un punto ineludibile.
Di questa società la mia generazione e le altre dopo, almeno fino a fine anni ‘80, ha goduto e quasi sempre passivamente. L’orizzonte esistenziale di questa società per i più sembrava l’unico possibile. Generazioni inconsapevolmente nate e cresciute nel “paese dei balocchi”, abbiamo presto imparato che avendo sufficiente denaro tutto era possibile o lo sarebbe stato in un prossimo futuro. Cosa è alla fine un consumatore se non qualcuno che gode dei propri privilegi dandoli in qualche modo per scontati? Facciamo e abbiamo fatto vite come gabbie comode e dorate: difficile ora per queste generazioni – qualunque sia il nostro ruolo nella società, politico, giornalista, imprenditore, semplice consumatore – credere che non sia vero; molto più comodo rifugiarsi nella convinzione che passerà, che questi eventi sono ancora eccezionali.
Così, se sembra duro il risveglio… che sia almeno un po’ più in là, che ci si possa ancora girare dall’altra parte.
In un paese dell’Alpe si conserva memoria dei luoghi. Cerco i proverbi che la tradizione ha selezionato per la pioggia. Ne riporto alcuni:
Pioggia di febbraio riempie il granaio.
Se piove per l’ascensa (Ascensione), per quaranta dì non stai senza.
Aprile piovoso fa il maggio grazioso.
Maggio se acquoso è dannoso.
Pioggia d’agosto rinfresca il bosco.
Certo, fragilissimi tentativi di dare ordine all’incontrollabile; eppure era una saggezza minima quanto statisticamente efficace per i diversi territori dove l’esperienza si rincorreva attraverso le generazioni. La prova? Non esistono sugli Appennini proverbi sui terremoti, evento totalmente imprevedibile e ingovernabile. Mentre gli effetti dell’alluvione si possono almeno mitigare, contrastare. Una memoria storica dei rischi delle acque ha sempre fatto da “vaccino” alla fragilità endemica dell’antica società dei monti; un vaccino che a cascata aveva i suoi benevoli effetti anche più a valle.
Dopo, le generazioni del for ever young come sogno, “credo” e possibile acquisto, non si sono sentite più fragili a sufficienza; così le previsioni della scienza per loro sono potute diventare soprattutto fastidi, minacce ancora lontane.
Valgono per queste generazioni – il negazionismo, in qualunque forma è soprattutto loro – e per noi, le parole che nel racconto Porte Aperte, Leonardo Sciascia fa dire al giudice sul peso della condanna: “Mi conforta una fantasia: che se tutto questo, il mondo, la vita, noi stessi, altro non è, come è stato detto, che il sogno di qualcuno, questo dettaglio infinitesimo del suo sogno, questo caso di cui stiamo discutendo, l’agonia del condannato, la mia, la sua, può anche servire ad avvertirlo che sta sognando male, che si volti su un altro fianco, che cerchi di aver sogni migliori…”
Possiamo pensare che sia ancora tutto un sogno e che al risveglio ogni cosa torni come nei “nuovi” anni Cinquanta, nei favolosi anni Sessanta, nei mitici anni Ottanta e oltre, ma non è così.
Sugli Appennini, finché sono stati vissuti, le acque erano parte della vita, il loro eccesso previsto, contrastato e mitigato. Gli Appennini dagli anni Cinquanta in poi, svuotati di gente, sono stati a lungo e sono una ferita aperta su tutto il paese, dalla Liguria alla Calabria. Sono stati e sono un’emorragia economica e demografica, una ferita sanguinante nel tempo; ora gli effetti dell’emorragia sono arrivati anche nel piano e nelle città.
Meglio svegliarsi; non servirà girarsi dall’altra parte.
P.s. Leggo solo ora una notizia dell’Ansa del 17 maggio relativa a un tweet (poi rimosso) di un ministro. Vi si accostava la solidarietà per gli alluvionati alla delusione per una partita del Milan.
La consolazione, se così si può dire, è che più che un incidente della politica sial’esempio della confusione di un’intera generazione.