Le lezioni del voto in Grecia (corriere.it)

Europa

Anche adesso che, scomparse le arti magiche del fondatore, sono entrati in campo i successori. La sinistra — a dire il vero — accettò il principio del maggioritario venticinque anni fa quando al timone c’era Romano Prodi (e con lui Arturo Parisi). Poi sfasciò tutto e nell’ultimo decennio ha contato solo sul gioco delle alleanze in Aula, quello per cui l’importante non è vincere le elezioni bensì trovare in Parlamento partiti o gruppi di transfughi disponibili a dar vita ad un governo.

Li si trova sempre. Il punto adesso è: dopo qualche diniego che si addice a tempi in cui questo tipo di prospettiva non è neanche all’orizzonte, la sinistra immagina, in una fase successiva, di dedicarsi alla costruzione di nuove «unità nazionali»?

Sembra di no. Come fare allora a darci strumenti che consentano di resistere alla tentazione tornare allo scorso decennio? Probabilmente è di questo che si parla quando viene messo sul tavolo l’incartamento del presidenzialismo. Impone qualche riflessione un uomo saggio qual è l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, il quale ha dichiarato (a la Repubblica) che «il presidenzialismo fondato sulla spaccatura del corpo elettorale in due fronti avversi sembra fatto apposta per esaltare l’aspetto distruttivo».

E che «una riforma costituzionale in questa direzione potrebbe alimentare un humus pericoloso». Benissimo. Zagrebelsky sarà però in grado di indicare modalità non distruttive e un humus non pericoloso con cui e su cui gli elettori possano dividersi e confrontarsi normalmente come accade in moltissimi Paesi. In una competizione civile combattuta su «fronti avversi». O meglio su un unico fronte in cui gli «avversi», diciamo gli avversari, si battano per vincere e siano disponibili ad accettare la sconfitta, restando, ben combattivi, all’opposizione.

La sinistra greca e anche quella italiana promettono che — in caso di sconfitta — non parteciperanno più a governi pasticciati, costruiti in Parlamento come fu quello di Antonis Samaras che pure fu chiamato a reggere il Paese in condizioni difficilissime (2012-2015). Intenzione lodevole. Ma la serietà dell’intento potrà essere giudicata sulla disponibilità a condividere un modello istituzionale che renda difficili o addirittura impossibili governi sorretti da partiti sconfitti in una competizione elettorale.

Si può (anzi, si deve) contemplare che in situazioni di emergenza al capo dello Stato sia concesso di dar vita a governi, appunto, emergenziali quale fu quello di Samaras ed è stato quello (ben diverso) presieduto da Mario Draghi. Ma dovrebbe esserci l’intesa sul fatto che a un governo del genere non dovrebbe prendere parte nessun esponente di partito. A nessun livello. In altre parole: chi perde le elezioni non dovrebbe poter andare al governo.

A nessun titolo. Sul ponte di comando si potrà salire esclusivamente dopo aver conquistato la maggioranza nelle urne. Solo così la sinistra greca (che pure in questi giorni sta resistendo alla tentazione di proporsi a Mitsotakis) sarà costretta a strutturarsi come ha saputo fare la destra, tornando ad essere competitiva.

E non solo la sinistra greca.

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