Le origini del mito sull’Ucraina nazifascista: Azov, Bandera e il ruolo della propaganda russa (valigiablu.it)

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Un articolo pubblicato lo scorso 5 giugno dal 
New York Times ha rimesso al centro del dibattito 
sulla presunta questione nazista all’interno 
dell’esercito invaso.

Nell’articolo, l’analista di Bellingcat Michael Colborne sostiene come Kyiv debba considerare più seriamente il danno mediatico prodotto dalla parziale negligenza nella condanna di alcuni simboli, presenti nelle comunità militari più radicali di entrambe le parti in conflitto, fra cui Azov, Corpo volontario russo, Wagner e i numerosi neonazisti all’interno della Legione imperiale russa. Periodicamente, pure i presunti antifascisti delle repubbliche separatiste appoggiate da Mosca esibiscono simboli collegati al nazismo.

L’Ucraina, da parte sua, deve comprendere che qualsiasi errore comunicativo può minare il sostegno occidentale e la credibilità internazionale del paese, dice Colborne. Ha espresso un’opinione simile anche  Illya Ponomarenko, giornalista del Kyiv Independent e fra i più famosi reporter di guerra ucraini sin dal 2014. Ponomarenko propone di inasprire le misure punitive contro i singoli soldati, ma spiega come la presenza di queste simbologie non sia un unicum nemmeno per gli eserciti occidentali. Casi simili si sono verificati, nell’esercito australiano, e fra un corpo dei marines statunitense durante la guerra in Afghanistan, per citare i casi più celebri e controversi.

La situazione attorno alla memoria storica ucraina e al ruolo effettivo dell’estrema destra nel paese è assai complessa, ma il tema viene spesso evocato, oltre che dai russi, da chi si oppone all’invio di armi per la difesa ucraina dall’invasione, giustificando le proprie posizioni attraverso un presunto scrupolo morale nell’armare un esercito in cui le ideologie estreme sarebbero dilaganti.

Da una parte, il discorso mainstream ucraino ha spesso glissato su questi episodi per timore di fare il gioco della propaganda russa, dall’altra la necessità di fare chiarezza in merito è fondamentale poiché sia Mosca, sia chi in Occidente a livello accademico e giornalistico ne rilancia le tesi, contribuisce a influenzare e confondere il dibattito in merito.

Una manipolazione che ha riunito sotto un unico calderone ideologico le poche decine di suprematisti bianchi presenti in alcune organizzazioni ultranazionaliste ucraine, i più presenti richiami a esperienze storiche controverse da parte di alcuni battaglioni e militari, e il nazionalismo civico della popolazione scevro di qualsiasi referenza a qualità etnico-linguistiche, bensì amplificato in risposta all’invasione russa, per sostenere una tesi senza fondamento: il nazismo di fondo della società ucraina.

Un’accusa tesa a giustificare l’invasione del paese, resa ancor più assurda dalla circostanza per cui la dottrina del nazionalismo controllato putiniano da quasi due decenni ha cooptato e mobilitato l’estrema destra radicale russa, inclusi movimenti neonazisti e neozaristi, anche allo scopo di perseguitare l’opposizione, minoranze e giornalisti, spesso impunemente. Movimenti vicini al Cremlino, come Russkii Obraz, si sono resi responsabili di decine di omicidi su base razziale nella Federazione Russa in pochi mesi già nel 2009, gli stessi anni in cui la macchina propagandistica russa ha iniziato a foraggiare l’estrema destra in Europa. Manca ancora un lustro alla nascita di Azov, mentre le bandiere rosso-nere di Pravij Sektor erano sconosciute ai più persino in Ucraina.

Elementi di neonazismo all’interno dei battaglioni volontari in Donbas e la metamorfosi di Azov

La stereotipizzazione del nazionalismo ucraino generata dalla propaganda russa non ammette altri livelli di analisi, rimanendo sorda, ad esempio, sui motivi del legame tra estrema destra ucraina e filantropi ebraici, tra cui oligarchi come Ihor Kolomojskij, che hanno finanziato, a partire dal 2014, i battaglioni volontari per aumentare la propria influenza all’interno della politica interna ucraina.

Il battaglione Azov nasce il 5 maggio 2014 a Berdyansk, come formazione volontaria di alcuni radicali e nazionalisti in risposta alla violenza di strada innescata dalle manifestazioni separatiste e filorusse in Donbas e altre città dell’Est ucraino. Sin dalle proteste di Maidan i militanti delle organizzazioni ultranazionaliste non hanno mai rinunciato a rispondere alle provocazioni, o provocare loro stessi lo scontro, di altri picchiatori di professione – i tituskhy – assoldati dal regime filorusso di Viktor Yanukovich, e presentati da Mosca come autentiche voci del dissenso russofono contro le presunte politiche nazionaliste di Kyiv.

Azov si è affermato in Donbas come una delle forze con migliore operatività sul campo, ma anche fra i pochissimi corpi militari ucraini a essere accusati dalle organizzazioni internazionali di aver compiuto crimini di guerra – principalmente casi di tortura verso sospettati di collaborazionismo filorusso; pratiche usate, fra le altre cose, su larga scala dalla controparte separatista e russa. L’accusa più grave rivolta ad Azov è lo stupro di gruppo (8-10 persone) di un uomo con disabilità mentali nell’agosto del 2014, secondo quando riportato dall’OHCHR.

Uno dei fondatori di Azov è Andriy Biletskiy, che già nel 2006 aveva costituito a Kharkiv il movimento suprematista chiamato Patriota Ucraino, mascherandosi però, dal 2013, dietro posizioni superficialmente patriottiche e nazionaliste. I primi ad arruolarsi in Azov sono in effetti ultras (inizialmente del Metalist Kharkiv, poi di altre curve ucraine) e le poche decine di iscritti del Patriota Ucraino, conosciuti giornalisticamente come “omini neri”. Biletskiy e la maggior parte dei suoi uomini non avevano partecipato alle proteste di Maidan.

Il politologo ucraino Anton Shekovtsov, specializzato nei movimenti di estrema destra nello spazio post-sovietico, ricorda come vi fosse molta sfiducia verso il battaglione volontario Azov nel 2014, poiché infiltrato delle personalità più estremiste e razziste della subcultura nazionalista ucraina, i cui background personali rischiavano di alimentare la propaganda russa. “Se stai annegando, è improbabile che tu chieda al salvatore le sue opinioni e convinzioni politiche. Ma cosa succederebbe se un tale salvatore ti tendesse la mano solo per poi ucciderti in un modo diverso?” sostiene Shekhovtsov.

Come scrive la giornalista ucraina Halya Sklyarevska, fino al 2014 Biletsiy e i membri del suo movimento passavano le giornate come i neonazisti di tutto il mondo. “Rapporti ambivalenti con gli spacciatori, detenzione illegale dei clandestini, marce per i “valori tradizionali” e frequenti scontri con le forze dell’ordine” scriveva lo scorso anno Sklyarevska.

Nella primavera successiva a Maidan, in cui le proteste di una parte della popolazione dell’Est, incentivata e finanziata dal Cremlino, innescano un clima di caccia al separatista e al traditore di Stato, movimenti come quello di Biletskiy saranno furbi nello sfruttare l’occasione, oltre che per partecipare alle ondate di violenza, per ripulire la propria immagine attraverso una patina di patriottismo, svolgendo l’innegabile ruolo di difesa dei confini ucraini messi in pericolo dall’invasione russa.

Oggi Biletskiy nasconde le sue precedenti posizioni suprematiste (tra cui la missione della nazione ucraina di «guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro i subumani capeggiati dai semiti», dichiarazione poi negata da Biletskiy) e apertamente razziste, mentre nel 2020 si scagliava contro “élite, social network, governi occidentali, polizia e Soros” ricalcando pedissequamente la vulgata dell’alt-right statunitense vicina a Donald Trump.

La propaganda russa, infatti, ha spesso parlato di movimenti di estrema destra finanziati dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti: in realtà, come organizzazione politica, Azov è per definizione antieuropeista e antiglobalista, così come l’altro incubatore del nazionalismo radicale Pravij Sektor. La loro credibilità è per lo più militare, mentre la condivisione della linea politica è pressoché nulla nella società ucraina, seppure sia innegabile come alcuni temi cari all’estrema destra siano riusciti lentamente a permeare nel mainstream del discorso politico-culturale ucraino.

In realtà, Andriy Biletskiy riesce persino a farsi eleggere in Parlamento nel caos tra Maidan e Donbas, sebbene il Fronte Nazionale (destra moderata e filoeuropea) non lo accetti nei suoi ranghi dopo che Biletskiy “non si è dissociato dalle sue precedenti visione suprematiste, razziste e contrarie ai valori europei”, secondo un comunicato del partito.

Entrerà nella Verkhovna Rada da indipendente, ma si vocifera abbia la protezione dell’ala più destrorsa del Fronte Nazionale, quella del ministro degli Interni Arsen Avakov e del suo segretario Anton Geraschenko, che contribuiscono all’ascesa di Azov come corpo militare d’élite da quando viene incorporato nella Guardia Nazionale ucraina. I giornalisti ucraini hanno più volte evidenziato come Biletskiy fosse campione per assenze dell’VIII legislatura ucraina e mancanza di accountability degli incarichi parlamentari. Nel 2019, candidandosi con Svoboda, non verrà rieletto.

Anton Shekhovstov sottolinea come, passando da battaglione a corpo della Guardia Nazionale, Azov si sia depoliticizzato, e la percentuale di combattenti neonazisti sia calata già nel 2015 (secondo un ex combattente erano il 10-20%), e in ogni caso né dilagante né pubblicizzata, mentre sono lentamente entrati a far parte anche ebrei, georgiani e tatari all’interno della legione.

Questa operazione di rebranding è stata motivata anche dal rifiuto statunitense, nel 2018, di inviare armi ad Azov e dall’indagine aperta dal Congresso (poi chiusa) sull’addestramento da parte di Azov di alcuni foreign fighters americani legati a movimenti suprematisti. Sembra però che già nel 2017, per volontà dei nuovi vertici, siano cominciate purghe interne verso i combattenti apertamente neonazisti arruolatisi nel 2014.

La matrice politica di Azov, nel 2022, non può più quindi essere definita come neonazista, sottolinea un report del Counter Extremism Project. Dalle origini effettivamente legate a numerose presenze neonaziste, sarebbero tuttavia sempre meno i combattenti con aperte posizioni ideologiche a essere arruolati in esso. Nemmeno in seguito ad Azovstal’, disponendo di centinaia di prigionieri di guerra, la macchina propagandista russa è riuscita a produrre materiale sul presunto dilagare del nazismo in Azov, al di là di un paio di tatuaggi, la cui veridicità è pure da dimostrare.

L’unità è stata, ovviamente, smembrata dall’assedio di Mariupol’, e ricostituita qualche mese dopo a Kharkiv. Essa, però, ha perso molti dei legami con l’estremismo e fanatismo della fase iniziale come battaglione nel 2014, sostituendo persino l’arcinoto logo “Idea della nazione” (formato dall’intersezione delle lettere N e I, ma spesso collegato al Wolfsangel nazista) con il Tryzub stilizzato (lo stemma dell’Ucraina) formato da tre spade d’oro.

Oggi in Ucraina sembra una scelta cosciente, di certo criticabile ma resa necessaria da altre priorità dettate dall’invasione russa, quella di non mettere pulci all’orecchio ad Azov riguardo il passato e le sue origini. La paura è quella di screditare e demoralizzare una formazione che, volente o nolente, contribuisce alla difesa dall’invasione russa.

In questo c’è anche una componente di machismo interiorizzato: gli uomini che attualmente non combattono per difendere il paese dall’invasione, sono scoraggiati nel criticare “dal divano (nella vulgata social ucraina post-2022 si è diffuso il termine divannij expert, esperto dal divano) le posizioni, per quanto vergognose, di chi difende in prima linea le città ucraine dai crimini di guerra russi.

“Gruppi come Azov nascono dalla guerra», ha spiegato a Open l’analista politico del Centro di Studi sull’Est Europa di Stoccolma Andreas Umland. «Putin vuole fare passare l’idea che la ragione per cui ha attaccato l’Ucraina è la presenza delle forze di estrema destra, ma sta invertendo la causa con l’effetto”. È proprio la guerra a creare le condizioni per rinforzare i gruppi estremisti.

Tornando al fondatore Biletskiy, è opportuno dividerne il profilo politico e quello militare, così come lo stesso movimento Azov (e le successive diramazioni politiche, oltre al cosiddetto attivismo di strada organizzato a volte in ronde sul modello neofascista di alcuni movimenti italiani, e resosi responsabile di episodi anche gravi negli scorsi anni) dall’omonimo corpo militare: peraltro la legge ucraina proibisce ad esponenti politici di essere contemporaneamente vertici militari.

Secondo Vyacheslav Likhachev, un esperto di movimenti di estrema destra formatosi a Mosca, l’efficienza militare di Azov è per Biletsky un marchio da cui estrarre valore al fine di aumentare la propria popolarità (almeno fino al 2022, poiché ora è tornato al fronte ed è uscito dallo spettro politico). “Biletskiy ha ricercato la legittimazione pubblica e ha tentato di convertire il capitale sociale guadagnato nella guerra in Donbas in capitale politico. Così hanno provato a fare altri personaggi pubblici divenuti noti al grande pubblico come fondatori delle formazioni di volontari al fronte” spiega Likhachev.

Ciò non ha funzionato: un sondaggio del 2021 lo posiziona fra i politici con meno credibilità secondo l’elettorato ucraino. Lo ritiene credibile il 5% degli intervistati, mentre il 67% non sa chi sia. L’influenza militare dei nazionalisti ucraini non si è tradotta in un sostegno politico, nemmeno in un contesto di guerra in cui le posizioni populiste e radicali, in genere, tendono a prosperare.

Biletskiy e alcuni cofondatori provenienti dall’ambiente neonazista di Patriota Ucraino sono lentamente usciti dai ranghi di Azov, una volta che questi è stato integrato nella Guardia Nazionale, tentando l’avventura politica. Il progetto elettorale di Biletskiy denominato Corpo Nazionale, in cui sono confluite tutti i partiti di estrema destra (Pravij SektorSvoboda, Patriota Ucraino), è miseramente fallito. Alle elezioni parlamentari del 2019 la coalizione ha raccolto appena il 2,15% (alle elezioni del 2012, un anno prima di Maidan, Svoboda aveva preso il 10,45%).

Biletskyi, insieme all’ex segretario di Pravij Sektor Dmitrij Yarosh, hanno puntato su un populismo di guerra che aveva tentato di strumentalizzare alcuni veterani della guerra del Donbas, ma gli ucraini hanno risposto col due di picche, sebbene – e ciò può sembrare paradossale – continuino a rispettare Biletskyi e Yarosh in quanto combattenti nella difesa ucraina, ma non come uomini e politici.

Vari reportage di testate internazionali hanno denunciato alcuni campi di addestramento organizzati da personalità legate ad Azov, in cui vi era il rischio di insegnare a minori e bambini il culto della violenza e l’odio antirusso. Questo è l’ordine dei rischi posto dall’ascesa delle teorie nazionaliste in Ucraina, ma di certo non vi è una connivenza del sistema politico come la propaganda russa, più o meno rumorosamente, ha tentato di far credere negli scorsi anni.

Vittimisticamente, Biletskiy e altri estremisti ucraini hanno addirittura denunciato di essere repressi dai governi Poroshenko prima e Zelensky poi, parlando di “soppressione del movimento patriottico” e chiedendo le dimissioni pure del protettore dell’ala nazionalista Arsen Avakov, evidentemente non soddisfatti del livello di concessioni dell’ex ministro dell’Interno.

Le poche mele marce della guerra del Donbas si aspettavano impunità una volta tornati alla vita civile, ma i progressi del sistema giudiziario ucraino e uno Stato di diritto, seppur fragile in ogni caso efficiente nelle sue funzioni basilari, hanno garantito l’indipendenza del potere politico dalla riconoscenza strumentale e indiscriminata ai veterani nel Donbas. Una sfida che sarà ancora più urgente conclusa l’invasione russa su larga scala.

I miti nostalgici dell’ultranazionalismo ucraino: Stepan Bandera e la memoria dell’OUN-UPA

L’esperienza e l’ideologia di Azov ( in quanto movimento politico e non corpo dell’esercito) è peraltro intrisa di un’ideologia superomistica e discriminatoria verso minoranze come migranti comunità LGBT, ma completamente slegata – anche a livello simbolico – dal più ampio immaginario del nazionalismo ucraino, le cui posizioni politiche rimangono comunque settate su quella dell’estrema destra radicale, ma immuni da qualsiasi accusa di neonazismo. Una volta esaurita la sirena Azov, la propaganda russa passa, quasi sempre, alla rassegna delle malefatte di Stepan Bandera, per tornare a ribadire un nazismo anche storico del paese Ucraina.

Con le controverse leggi di decomunistizzazione del 2015 lo Stato ucraino, nel proibire la simbologia e propaganda comunista, l’ha equiparata a quella nazista, proibendo pure i richiami a quest’ultima. Tuttavia, sono rimaste delle zone grigie controverse, come la tolleranza (in seguito a lunga diatriba legale) verso simboli ispirati ad alcuni reparti collaborazionisti durante l’occupazione in Galizia.

L’influenza di quest’ultimi viene spesso minimizzata da alcuni politici e storici ucraini nella narrazione secondo cui gli eserciti insurrezionali dell’UPA (Ukrains’ka povstans’ka armija), formatisi a partire dai militanti nazionalisti dell’OUN (Orhanizacija ukraïns’kych nacionalistiv), avrebbero condotto una battaglia di liberazione nazionale antisovietica, in cui la breve parentesi di alleanza coi nazisti è stata irrilevante per collegare l’ideologia nazionalista di Stepan Bandera e Roman Shukhevich – in realtà più vicina al fascismo italiano – a quella suprematista di Hitler.

La breve alleanza di Bandera con i nazisti fu tattica e strumentale: l’OUN aveva inteso che Hitler prevedesse uno stato indipendente per gli ucraini, mentre queste furono solo le promesse di alcuni gerarchi nazisti che scelsero di sfruttare i sentimenti antirussi di galiziani e polacchi. La teoria nazionalsocialista del Lebensraum (spazio vitale) comprendeva anche il territorio ucraino, e considerava tutti gli slavi autoctoni come subumani.

Bandera fu dunque arrestato dalle autorità tedesche e rinchiuso in un campo di concentramento, mentre in una seconda fase l’UPA cominciò a condurre campagne di sabotaggio sia contro i nazisti che verso i comunisti, seppure alcuni guerriglieri fortemente antisemiti rimasero fedeli ai primi all’interno delle Waffen-SS Galizien (così come molti altri ucraini occidentali si arruolarono nell’Armata Rossa, un altro lato della medaglia mai ricordato, insieme ad altri milioni di ucraini della fetta di paese già controllata dall’Urss nel 1941).

L’influente storico ucraino Oleksandr Zajcev definisce, dal punto di vista teorico, l’ideologia OUN-UPA come un “nazionalismo integrale protofascista in assenza di Stato nazionale”, in cui il nazionalismo etnico è prevalente ma non esclusivo (le varie posizioni portarono pure a una scissione tra OUN-M e OUN-B, rispettivamente le iniziali di Andriy Mel’nik e Stepan Bandera), e in ogni caso subordinato alla lotta di liberazione nazionale.

L’enfasi su questo aspetto, in un clima in cui la guerra russa ha esacerbato i sentimenti di appartenenza nazionale ed empatia verso chiunque abbia combattuto per essa. I guerriglieri dell’UPA hanno continuato a sabotare clandestinamente l’occupazione sovietica fino agli anni ’60, quando il nazismo hitleriano era già sepolto ma rimaneva viva l’idea di poter ricostituire uno Stato ucraino, su basi etniche, a partire dai Carpazi.

Queste circostanze hanno messo in secondo piano le posizioni ideologiche di molti dei suoi membri, oltre agli episodi di violenza etnica contro polacchi ed ebrei, peraltro da analizzare nel contesto del più ampio conflitto sociale fra ucraini e polacchi in Galizia iniziato non nel 1945, ma negli ultimi decenni dell’Ottocento. Decenni in cui varie forme di violenza, terrorismo e repressione sono state utilizzate da entrambe le parti, creando una memoria divisiva fra i due paesi.

La questione dell’eredità storica dell’OUN-UPA rimane un tema controverso all’interno della stessa società ucraina, risoltosi paradossalmente in una rivalutazione della lotta partigiana di Bandera come contraltare, spesso ironico e depoliticizzato rispetto all’ideologia fattuale dell’OUN, alla martellante accusa di nazismo di Putin verso chiunque sostenga un percorso indipendente dell’Ucraina post-Maidan, slegata cioè dal secolare dominio imperiale di Mosca.

Sin dal 2013 gli ucraini sono chiamati indiscriminatamente banderovtsy dalla propaganda del Cremlino, e molti hanno specularmente risposto alle accuse decontestualizzando la figura reale di Bandera. Sarà la storia a definire le conseguenze di questa rivalutazione controversa, ma allo stato attuale questa rimane una reazione difensiva, al più strumentalizzata da alcuni gruppi nazionalisti per accrescimento di capitale politico e identitario.

Mosca accusa Kyiv di nazifascismo per aver istituzionalizzato e normalizzato il culto di Stepan Bandera, mentre l’ex leader dei nazionalisti ucraini è in realtà diventato un simbolo idealizzato della lotta antirussa di una parte della società, mancando una condivisione reale della sua visione di mondo: una scelta dettata anche dalla mancanza di miti a cui aggrapparsi – i milioni di ucraini morti nell’Armata Rossa per liberare l’Europa dal nazismo sono stati appropriati dalla narrazione russocentrica della Grande Guerra Patriottica, e decolonizzare l’immagine dei partigiani comunisti ucraini sarà un processo storiografico complesso.

La tendenziale rinuncia all’immaginario sovietico in Ucraina ha favorito la propaganda russa a definire come di origine fascista e banderista qualsiasi rievocazione identitaria e simbolica presente all’interno delle forze armate ucraine. In questo senso, un caso emblematico è quello dello slogan Slava Ukraini! Heroyam Slava! (“Gloria all’Ucraina! Gloria agli eroi!”) dipinto come un saluto nato nei ranghi dell’OUN-UPA. In realtà, il motto ha origine nell’esercito ucraino indipendentista retto dal socialista Symon Petlyura tra gli anni ’10 e ’20, nel contesto della guerra civile russa.

In ogni caso, delineare il contesto per cui si assiste a una graduale normalizzazione di pagine controverse della storia ucraina non rende lungimirante la scelta di alcune amministrazioni regionali dell’Ovest ucraino (Leopoli, Ternopil’, Rivne) di erigere monumenti e intitolare strade a Bandera e altri combattenti dell’OUN-UPA, anche solo perché ha dato in pasto materiale alla propaganda russa, ancor prima che il dibattito storiografico sia lontanamente vicino dall’elaborare una memoria condivisa del ruolo di Bandera e dei partigiani OUN-UPA all’interno della storia ucraina, e dell’Europa orientale in generale.

Tuttavia, la restaurazione e rivalutazione di politici e militari schieratisi con le truppe naziste, in modo temporaneo e opportunistico come Bandera o in maniera più organica in altri paesi, è una pratica estremamente diffusa in Europa orientale. Il revisionismo e la nostalgia verso alcune figure storiche alleate dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale sembra essere motivata da una vocazione ipernazionalista funzionale alle narrazioni patriottiche di paesi la cui storia è spesso stata segnata dall’occupazione di forze straniere, tingendosi di chiare note anticomuniste e antisovietiche, per ovvi motivi.

Le complesse e controverse politiche della memoria in Europa orientale

Negli ultimi anni del Novecento si è assistito a diversi processi innescati dal crollo del comunismo: il nation building di entità statali semi-nuove in Est Europa. Esperienze derivanti dalla stessa causa originaria, ma aventi un passato eterogeneo quanto oscurato dall’oblio storiografico sovietico.

Alcuni paesi ottenevano per la prima volta l’indipendenza in periodi di pace (Ucraina, Bielorussia, Slovacchia), altre recuperavano tradizioni statuali antiche sospese dall’occupazione sovietica (paesi Baltici), dall’emancipazione dal Patto di Varsavia (Polonia, Ungheria) o dal caos balcanico (Croazia).

In tutte, si è assistito alla rievocazione di diverse figure storiche e politiche, incluse alcune che avevano collaborato attivamente, per diversi motivi, con le autorità naziste. Le organizzazioni di estrema destra, come pure di destra moderata, hanno riconfigurato l’interpretazione storica di movimenti apertamente ultranazionalisti, irredentisti, antisemiti, reazionari e – in Croazia, Romania e Ungheria – antiziganisti.

In Slovacchia il fascista clericale Jozef Gašpar Tiso aveva collaborato con gli occupanti nazisti, ma la sua figura è stata rivalutata dai nazionalisti slovacchi, che lo hanno elevato a martire anticomunista e propulsore dell’indipendentismo nazionale dalla Cecoslovacchia.

Negli anni ’90 in Croazia diverse strade sono state intitolate a leader ustascisti come Mile Budak e Jure Francetić, alleati di Hitler e Mussolini nel secondo conflitto mondiale e responsabili di massacri contro la popolazione ebraica e rom. Ciò era parte della politica di conciliazione nazionale di Franjo Tuđman, primo presidente croato e fautore della pomirba, la ricerca di una pacificazione fra partigiani e combattenti nazionalisti croati. Nonostante la polarizzazione del dibattito, molte strade croate portano ancora il nome dei fascisti clericali ùstascia.

Anche in Estonia, Lituania e Lettonia il collaborazionismo fu abbastanza diffuso, costantemente in ottica antirussa e condizionato dalle promesse tedesche di concedere l’indipendenza a questi stati. Oggi gli abitanti dei paesi baltici concordano nell’aver vissuto due occupazioni consecutive, quella di Hitler e quella di Stalin, mentre all’epoca i cittadini si divisero nel supportare entrambi i lati del conflitto sovietico-tedesco.

In Romania il governo collaborazionista di Ion Antonescu è stato accusato di aver deliberatamente massacrato 275.000 ebrei e 5.000 rom durante la guerra, ma durante gli anni ’90 diverse strade di Bucarest e altre città romene sono state intitolate all’ex dittatore.

In Ungheria la riabilitazione dell’estrema destra e del reggente del Regno ungherese Miklós Horthy, alleato di italiani e tedeschi, è stata pervasiva, con endorsement di diversi esponenti di Fidesz e dello stesso Viktor Orban, che ha definito Horthy uno «statista eccezionale».

In tutti questi paesi, sono presenti militanti delle forze armate – e rispecchiano, ovviamente, una percentuale della popolazione – apertamente nostalgici di esperienze dittatoriali e collaborazioniste. Da questo punto di vista, l’Italia non ha bisogno di guardare troppo lontano: le unità della brigata paracadutisti “Folgore” dell’esercito italiano sono state in passato sotto i riflettori per il culto simbolico ed episodi di richiami espliciti al fascismo, in maniera non diversa dalla visione di mondo proposta da alcuni membri di Azov dopo la sua incorporazione nella Guardia Nazionale.

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