di Damiano Aliprandi
LA STRAGE
Nel dossier su mafia-appalti depositato dai Ros un anno prima dell’attentato, compare per la prima volta Via D’Amelio. Un edificio costruito dai Sansone, dove i Buscemi potrebbero aver dato supporto logistico
Non è ancora stata chiarita fino in fondo la modalità dell’esecuzione della strage di Via D’Amelio di quel terribile 19 luglio 1992. Un giorno angoscioso fin dalla prima mattinata quando Paolo Borsellino ricevette una inusuale telefonata da Pietro Giammanco, l’allora capo della procura di Palermo. Una chiamata per conferirgli finalmente la delega per le indagini palermitane. Quella notte, così riferì Borsellino alla moglie Agnese, Giammanco non dormì. Era inquieto. Un’inquietudine che si rifletté su Borsellino stesso. “No, ora la partita è aperta!”, esclamò al suo interlocutore, per poi abbassare la cornetta e passeggiare nervosamente lungo il corridoio dell’appartamento. L’indagine alla quale teneva più di tutte, ormai è noto, riguardava il dossier mafia-appalti.
E proprio in questo dossier, consegnato a febbraio del 1991 a Giovanni Falcone dagli allora Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, vengono anticipati degli elementi che portano anche all’esecuzione della strage. In quel dossier, in tempi non sospetti, già si parla di Via D’Amelio. Più specificatamente un appartamento, situato in un palazzo attiguo al luogo dell’attentato, riconducibile alla famiglia mafiosa Buscemi. E sempre nel dossier mafia-appalti appare almeno un personaggio mafioso che fece parte del commando non solo della strage del 19 luglio, ma anche di quella di Capaci dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e la scorta.
Ma andiamo con ordine. Sappiamo quasi tutto, soprattutto grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza che permisero la revisione del processo Borsellino, su come avvenne l’attentato. Conosciamo i nomi di vari mafiosi che vi parteciparono. Ovviamente in maniera compartimentata, che è stata la classica strategia di Totò Riina. Mentre si perde tempo con la ricerca delle “entità”, finora nessuna autorità giudiziaria ha vagliato un probabile luogo fisico usato come appoggio logistico. Come vedremo è di fondamentale importanza.
L’unico luogo passato al vaglio dagli inquirenti è stato il palazzo allora in costruzione dei fratelli Graziano, persone vicine alla famiglia mafiosa dei Madonia, sito a soli 170 metri dal luogo della strage. Nella consapevolezza che il luogo in cui è stata innescata a distanza la carica esplosiva che causò la strage di Via D’Amelio era rimasto uno dei punti più oscuri della ricostruzione accusatoria, l’ufficio della procura di Caltanissetta, che poi diede il via al processo Borsellino Quater, ritenne di iniziare dai dati acquisiti nell’immediatezza. Una pista che non portò però a nulla.
Attualmente rimane invariata l’ipotesi che Giuseppe Graviano premette il telecomando dietro il muretto che delimitava la fine della via D’Amelio e un retrostante giardino. Sappiamo, soprattutto grazie al pentito Giovanbattista Ferrante, persona non solo attendibilissima ma colui che fece parte del comando dell’attentato di Via D’Amelio, più precisamente nel ruolo di vedetta (fu tra coloro che presidiarono alcune vie per avvisare il passaggio delle auto che scortavano Borsellino), che i telecomandi potevano essere azionati da una distanza anche di 500 metri. D’altronde fu proprio lui a collaudarli una settimana prima dell’attentato.
Ebbene, teoricamente Graviano poteva azzerare il rischio facendo partire l’impulso anche da qualche appartamento situato di fronte al luogo della strage. Poteva avere una giusta visuale e soprattutto una copertura (e relativa via di fuga) in tutta sicurezza. Stando alle dichiarazioni di Fabio Tranchina, altro collaboratore di giustizia, Graviano stesso chiese a lui se fosse disponibile qualche appartamento. Lui non lo trovò, e allora Graviano gli disse che si sarebbe adattato. Da qui si dà per scontato che, non avendo reperito l’appartamento, si fosse “adattato” situandosi dietro il muretto.
Eppure, le cose non potrebbero stare così. Escluso il palazzo dei Graziano che era ancora in costruzione e disabitato (quindi impossibile “mimetizzarsi” tra gli inquilini), c’è un altro luogo che purtroppo non è stato vagliato dalle autorità. Parliamo del palazzo situato in Via D’Amelio 46, attiguo a quello dei Graziano, che nei primi momenti delle indagini effettuate il giorno dopo della strage appare nel primo verbale, perché la squadra mobile aveva sentito alcuni inquilini solo per chiedere se avessero notato dei movimenti nel vicino palazzo disabitato.
Ma ora viene il bello. A pagina 335 del dossier mafia-appalti, analizzando la figura di Vito Buscemi, il cugino dei fratelli Buscemi (in particolare Antonino, figura importantissima finita sotto processo ben cinque anni dopo l’archiviazione del dossier avvenuta nell’estate del 1992), gli ex Ros appurarono che risiedeva nell’appartamento del palazzo di Via D’Amelio 46. Ecco che ritorna in tempi non sospetti questo luogo.
Qui c’è da domandarsi se siamo sicuri che Graviano non avesse trovato una disponibilità di tale appartamento. Parliamo della famiglia Buscemi, persone di fondamentale importanza per Totò Riina: il potente braccio economico, inserito nelle più grandi imprese multinazionali dell’epoca. Vero che in quel momento Vito era stato raggiunto da una misura di custodia cautelare (fu tra le sei persone indagate e processate dalla procura di Palermo, su 44 posizioni che i Ros avevano individuato), ma potenzialmente l’appartamento poteva comunque rimanere disponibile ai fratelli Buscemi. Purtroppo non abbiamo risposte perché non c’è stata alcuna indagine giudiziaria.
Eppure tale luogo ritorna prepotentemente anche nel 1993, quando il capitano “Ultimo” redasse un verbale per l’allora pm Ilda Boccassini, riportando questo cruciale passaggio: “Vito Buscemi risiede in via D’Amelio 46 e pertanto ha la possibilità di disporre in loco di soggetti di assoluta fiducia”. Sempre secondo il Ros che catturò Totò Riina, era “accertata la possibilità da parte della famiglia Buscemi di svolgere una funzione di supporto logistico nelle aree interessate alle stragi”. Se a questo aggiungiamo che Totò Riina, intercettato al 41 bis, parla di un palazzo vicino al luogo della strage, tutto sembra andare in questa direzione. Il palazzo in Via D’Amelio 46 ha anche un’altra caratteristica: fu costruito dai fratelli Sansone. Parliamo dei costruttori mafiosi che, tra le altre cose, realizzarono il residence in via Bernini, dove viveva la famiglia di Riina. Fu lì che venne catturato il capo dei capi.
Nel dossier mafia-appalti compare per la prima volta questo palazzo di Via D’Amelio 46. Così come appare il nome di un mafioso che poi farà parte del commando nell’attentato. I Ros, per capire come mai una nota impresa nazionale (l’assunto del dossier è che tale grande impresa facesse parte del cosiddetto “tavolino”) abbia scelto in subappalto la Zanca Impianti per fare un lavoro su Palermo (subappalto concesso dalla giunta comunale guidata dall’ex sindaco Leoluca Orlando), scoprirono che nel collegio sindacale della società risultava far parte Lorenzo Tinnirello.
Chi era? Il vice capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille. Colui che, secondo Spatuzza, era nel garage per preparare l’autobomba usata per la strage. Tinnirello verrà condannato definitivamente anche per la strage di Capaci. Alla luce di tutto ciò, dovremmo analizzare a fondo il dossier mafia-appalti e capire se effettivamente la famiglia Buscemi abbia ricoperto un ruolo importantissimo anche nell’esecuzione della strage di Via D’Amelio.