di Giovanni Carbone
Le migrazioni contemporanee delle popolazioni dell’Africa occidentale si fondano su storiche tradizioni di mobilità interna ed esterna alla regione.
Le migrazioni contemporanee delle popolazioni dell’Africa occidentale[1] – la vasta area che si estende dalla Mauritania alla Nigeria, abbracciando dodici paesi che affacciano sulla costa atlantica, tre stati dell’entroterra saheliano e le isole di Capo Verde – hanno le loro radici nelle storiche tradizioni di mobilità interna ed esterna alla regione.
All’interno, gli spostamenti umani sono da sempre stati favoriti da legami linguistici e culturali trasversali e preesistenti ai confini nazionali, così come dalle attività legate a commercio e transumanza, con alcune comunità che ancora praticano il seminomadismo. Parallelamente, i traffici commerciali trans-sahariani hanno alimentato la mobilità umana su distanze maggiori in direzione nord, attraverso il deserto e verso le sponde meridionali del Mediterraneo.
A rinnovare queste prassi di diffusa mobilità sono oggi povertà e motivazioni economiche, pressioni dettate da conflitti e violenze nonché spinte di origine demografica e ambientale. Si tratta di fattori che, nel loro complesso, riguardano una parte molto consistente dei cittadini degli stati dell’Africa occidentale. Secondo sondaggi replicati in diversi paesi della regione, ben il 41% degli interpellati rivela di aver preso in considerazione di migrare (ma in Sierra Leone, Gambia, Togo e Liberia si arriva a punte del 50-57%), circa tre quarti di loro per ragioni economiche, benché per la maggioranza di essi si tratti di intenti vaghi o generici, non accompagnati da piani o preparativi concreti[2].
Questi potenziali migranti indicano come mete ideali l’Europa (31%) o il Nord America (30%), entrambe preferite rispetto a destinazioni interne al continente (25%). Si tratta di un orientamento che si differenzia parzialmente rispetto a quello degli africani nel loro complesso – inclusi cioè quelli che risiedono in altre aree – tra i quali prevale l’opzione di una meta interna alla regione di appartenenza o comunque al continente (29% e un altro 7%, rispettivamente, dunque 36% totale) rispetto alla preferenza per l’Europa (27%) o il Nord America (22%).
Come vedremo, tuttavia, i migranti che partono dall’Africa occidentale ed effettivamente arrivano a stabilirsi in Occidente sono una quota che resta minoritaria rispetto al numero totale di chi nella regione lascia il proprio paese d’origine.
Perché migrare: una combinazione di fattori
Le diverse ragioni alla base della mobilità migratoria dell’Africa occidentale sono la versione locale dei molteplici fattori che agiscono – in misure e combinazioni variabili, spesso intrecciandosi – anche in altre zone del continente.
La regione occidentale dell’Africa ha un tasso di crescita annua della popolazione pari al 2,5% (2023), marginalmente inferiore a quello subsahariano, ma notevolmente superiore allo 0,9% registrato a livello globale. Al netto del fatto che un andamento demografico di questo tipo possa rivelarsi anche un potenziale fattore di sviluppo, nel breve periodo esso indubbiamente aumenta la competizione per lavoro, terra, servizi e altro ancora, in un contesto di risorse scarse.
Alla rapida espansione demografica non ha infatti corrisposto, a oggi, la crescita delle opportunità necessarie a soddisfare almeno in parte le esigenze delle nuove, vaste generazioni.
Le pressioni demografiche ed economiche si sono dunque dilatate, contribuendo a spingere alla mobilità. Con un’espressione in lingua yoruba, in Nigeria si parla spesso di sindrome “japa”: il partire da parte dei giovani “in cerca di pascoli più verdi”. In questo senso, la diffusa percezione occidentale della natura “miserabile o degradante della migrazione”[3] può essere molto distante dal modo in cui i soggetti coinvolti guardano alla loro scelta ed esperienza migratoria, a partire da considerazioni legate non solo ai risvolti economici, ma anche ai rapporti parentali e alle condizioni sociali del loro contesto d’origine.
La capacità da parte dei migranti di arrivare a soddisfare i loro bisogni essenziali – lasciandosi alle spalle le frustrazioni e i rischi di “una vita senza lavoro, senza reddito o status”[4] – nonché di dare sostegno, in modi vari, a membri diversi della rete familiare, è in genere motivo per valutare positivamente il proprio percorso e i suoi risultati.
A livello aggregato, peraltro, le rimesse degli emigrati dell’Africa occidentale, nel 2019 pari a 36 miliardi di dollari (24 milioni di dollari per la sola Nigeria), rappresentano un flusso finanziario di primaria importanza non solo per paesi piccoli, nei quali esse toccano punte del 10-15% del Pil (Gambia, Capo Verde, Liberia), ma anche per economie di dimensioni maggiori come Senegal (9,1%), Ghana (7,3%) o Nigeria (6,1%)[5].
Accanto o a complemento delle motivazioni più strettamente economiche, le condizioni climatico-ambientali sono un ulteriore fattore che favorisce la mobilità, in particolare per le aree aride del Sahel. Desertificazione, scarsità delle precipitazioni e degradazione del suolo – ma anche eventi estremi come siccità e inondazioni – colpiscono direttamente la produttività agricola, dalla quale dipende il 40% del Pil dei paesi saheliani e il 70% della forza lavoro in Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad[6], e l’abitabilità di certe aree. La riduzione dei raccolti e l’aumento cronico di povertà e insicurezza alimentare, a loro volta, sono un potenziale motivo di migrazione.
E benché mobilità stagionale e seminomadismo siano parte della cultura di diverse comunità in paesi come il Niger, la migrazione permanente diventa più probabile. Per gli stati costieri dell’Africa occidentale, dal Senegal alla Nigeria, attraverso Guinea, Costa d’Avorio e altri, la vulnerabilità riguarda anche le aree esposte all’innalzamento del livello dei mari (il Senegal è l’ottavo paese al mondo più soggetto a questo rischio)[7]. Assieme all’impoverimento della pesca, condizioni di vita rese più complicate spingono molti a mettersi in movimento.
L’effetto di clima e ambiente non è però univoco. La siccità estrema, a esempio, comporta anche una riduzione della capacità delle persone di affrontare migrazioni su distanze lunghe e rotte internazionali, rendendo invece più probabili spostamenti limitati verso altre aree rurali. L’impatto dei fattori ambientali, inoltre, può essere anche indiretto, attraverso i conflitti generati dall’accresciuta competizione per risorse (terra e acqua) più scarse.
A queste dinamiche, a esempio, è dovuto almeno in parte l’aumento delle violenze tra comunità contadine stanziali e comunità pastorali seminomadi – con queste ultime in genere spinte più a sud del normale dall’inaridirsi delle terre settentrionali – soprattutto in aree della Nigeria, del Mali centrale e del nord del Burkina Faso.
Ma i conflitti sono tutt’altro che legati ai soli fattori ambientali. Un decennio di violenze e insicurezza, frutto principalmente di insurrezioni jihadiste nel nord-est della Nigeria (ai confini con Niger, Ciad e Camerun) e nel Sahel centro-occidentale (a cavallo tra Mali, Burkina Faso e Niger), ha generato centinaia di migliaia di rifugiati sparsi per la regione.
Individui forzati a migrare al di là dei confini nazionali come i maliani in Mauritania (95.000) e in Niger (76.000 maliani), i nigeriani in Niger (138.000) e in Camerun (126.000), oltre a quelli sradicati dalle loro terre seppur rimasti all’interno del paese di appartenenza, come per oltre 3 milioni e centomila sfollati interni in Nigeria, altri 2 milioni in Burkina Faso e attorno ai 400.000 ciascuno per Niger e Mali.
In anni di difficoltà crescenti, infine, anche la pandemia del Covid-19 ha avuto sulle migrazioni dell’Africa occidentale un impatto diretto, attraverso le restrizioni imposte alla mobilità sia nei paesi africani sia in quelli di destinazione, ma anche indiretto, attraverso la recessione economica. Quest’ultima ha verosimilmente aumentato le motivazioni, ma al tempo stesso ridotto in qualche misura – e per un periodo limitato – le capacità di migrare (a esempio, gli ingressi nell’UE di immigrati provenienti dalla regione, già erano fortemente calati, hanno toccato nel 2020 il livello minimo da molti anni a questa parte, prima di risalire nel biennio successivo).
Le direttrici delle migrazioni dall’Africa occidentale
La propensione alla migrazione dei cittadini dell’Africa occidentale si riflette in flussi e stock migratori sostanziosi[8]. Dalla regione provengono 10.560.000 dei 28.285.000 emigrati subsahariani (ovvero le persone che hanno lasciato il loro paese, incluse quelle rimaste nel continente), ovvero il 37%, una quota in linea con la proporzione della popolazione regionale rispetto a quella della più ampia area subsahariana[9].
Nonostante le diffuse preferenze per destinazioni extra-africane espresse, come si è visto sopra, nei sondaggi d’opinione, quasi due terzi di questi migranti si è spostata rimanendo all’interno della regione (6.740.000, pari al 64%). Come per l’Africa in generale, dunque, anche per la regione occidentale si conferma che gran parte dei migranti che da lì partono non arrivano in Europa (né in altre destinazioni extra-africane).
L’Africa occidentale resta comunque la principale area d’origine delle migrazioni subsahariane verso l’Europa. Gli spostamenti lungo questa direttrice – inclusi quelli verso l’Italia – sono non solo cospicui, ma anche in crescita. Dei 3.820.000 emigrati partiti dall’Africa occidentale che non si sono limitati a varcare i confini del loro paese, ma anche quelli della regione, risiede in Europa una maggioranza di ben 2.003.000 (dei quali 1.965.000 provenienti dai paesi Ecowas[10]), pari al 39% dei 5.130.000 immigrati subsahariani complessivi presenti nel Vecchio Continente.
Molto indicativa è anche la tendenza messa in luce dalla Figura 1 (p. 86): in termini relativi, si assiste a una graduale ma continua erosione della quota di migranti che restano nella regione e a un corrispettivo aumento di quella di coloro che sono emigrati su distanze più lunghe, verso altre aree del mondo. Se trent’anni fa solo un migrante su cinque aveva lasciato la regione, oggi lo fa più di uno su tre.
Non si tratta solo di una progressiva inversione della proporzione tra migrazioni intra-regionali ed extra-regionali – un’inversione peraltro non ancora completata, né necessariamente destinata a compiersi del tutto – ma anche di un processo di graduale diversificazione delle destinazioni. Come questa diversificazione possa procedere nei casi più marcati è esemplificato dai migranti senegalesi, con la loro lunga tradizione di mobilità internazionale. All’interno del continente le destinazioni privilegiate sono state tipicamente paesi francofoni confinanti o relativamente vicini – come Mauritania e Costa d’Avorio – oppure altri non troppo lontani dai confini dell’Africa occidentale (Marocco, Camerun, Gabon, Congo-Brazzaville e Congo-Kinshasa).
Ma non sono mancate mete africane più distanti, come Egitto e in parte Angola. Le migrazioni senegalesi d’oltremare, invece, fin da prima dell’indipendenza hanno naturalmente favorito la Francia, ex madrepatria coloniale di Dakar e di molti dei paesi di questa regione.
Dagli anni Ottanta, tuttavia, il ventaglio dei punti di destinazione si è allargato, da un lato, ad altri paesi dell’Europa meridionale (Italia, Spagna e in parte Portogallo) e in una certa misura anche alla Germania, e dall’altro a paesi d’oltreoceano (Stati Uniti e Canada, ma anche Brasile e Argentina). Una terza fase, più recente, ha visto l’elenco delle destinazioni estendersi fino a comprendere un maggior numero di paesi arabi (nel Maghreb e nel Golfo) e asiatici (principalmente la Cina)[11].
L’Africa occidentale è parte integrante delle rotte migratorie del Mediterraneo centrale e occidentale che conducono verso l’Europa. Queste rotte sono alimentate in buona misura da una mobilità che origina, in maniera ramificata, dai paesi costieri della regione e transita poi in parte minore lungo la costa atlantica (verso le isole Canarie), in parte maggiore attraverso paesi saheliani come Mali e Niger (Figura 2, p. 90).
Non è un caso che l’Unione europea, nell’ultimo decennio, abbia dedicato energie e risorse alla collaborazione bilaterale con i paesi di quest’area, nel tentativo di contenere i flussi migratori ‘esternalizzando’ il controllo delle proprie frontiere anche con azioni di gestione dei flussi al di là della sponda sud del Mediterraneo. La rilevanza del Niger come cruciale snodo di transito nelle rotte migratorie extra-regionali (oltre che regionali), in particolare, è andata crescendo. Il paese è stato storicamente un crocevia tra est e ovest, soprattutto nei commerci transahariani operati dalle comunità tuareg.
Anche oggi è un importante raccordo tra nord e sud nella mobilità verso aree diverse del Maghreb (a esempio con le migrazioni circolari di lavoratori agricoli stagionali diretti in Libia e Algeria) e verso il Mediterraneo e l’Europa. I flussi migratori che attraversano il Niger restano sostanziali, ma anche soggetti a mutamenti e adattamenti sulla scia di sviluppi sia interni al paese (in particolare, l’evoluzione del contesto economico e delle politiche di controllo della mobilità) che esterni (soprattutto l’insicurezza della regione e le politiche introdotte dai paesi limitrofi)[12].
Le dinamiche della mobilità intra-regionale
L’Africa occidentale, come accennato, non è solo un’importante zona d’origine delle migrazioni extra-africane, ma anche un’area di destinazione di vasti spostamenti intra-regionali. Con la sola eccezione della Mauritania, tutti i paesi che vi appartengono sono membri della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), l’organizzazione creata formalmente nel 1975 e in seguito riconosciuta anche dall’Unione Africana (UA) come strumento cardine per l’integrazione economica sub-regionale.
Questi quindici paesi costituiscono un blocco geograficamente ampio (5,2 milioni di km2) ma al tempo stesso molto compatto, abitato da circa 430 milioni di persone che, con un incremento del 75% nel prossimo quarto di secolo, si stima diventeranno 758 milioni nel 2050[13]. Per dare un’idea, le dimensioni geografiche e demografiche dell’Ecowas non sono troppo dissimili da quelle dell’intera Unione europea, i cui 27 paesi membri contano una popolazione di circa 450 milioni su un territorio complessivo di 4,2 milioni di km2.
Proprio dall’Ecowas ha preso vita il quadro normativo che ha garantito e favorito la mobilità intra-regionale con l’adozione, nel 1979, del “Protocollo sulla libera circolazione delle persone, il diritto di residenza e di stabilimento”[14]. Il Protocollo si innesta sul fatto che i confini africani restano, per lo più, poco presidiati da stati che, specialmente nelle zone periferiche, hanno capacità amministrative limitate.
Tale combinazione rende quella dell’Africa occidentale la più avanzata, sul fronte della libertà di movimento – una dimensione centrale di ogni processo di integrazione regionale –, tra tutte le otto organizzazioni sub-regionali riconosciute dall’UA nel continente[15]. Non è un caso che gli abitanti degli stati dell’Ecowas, a lungo abituati alle migrazioni intra-regionali alla ricerca delle opportunità di lavoro offerte dalle aree delle grandi colture agricole (come piantagioni di cacao, caffè, arachidi e cotone) e da quelle di estrazione mineraria (per lo più oro), si dichiarino più favorevoli alla libertà di circolazione attraverso i confini nazionali di quanto non facciano coloro che risiedono in altre aree del continente (66%, contro una media continentale del 56%)[16].
In Africa occidentale, i paesi d’origine di chi emigra sono soprattutto quelli alle prese con un’espansione demografica importante, a fronte della quale le opportunità economiche restano scarse, oppure quelli che soffrono un deterioramento della sicurezza o delle condizioni ambientali e climatiche. Un livello di istruzione nettamente più basso e lo scarso uso dei canali digitali nell’informarsi sulle possibilità e modalità della migrazione distingue spesso in modo evidente questo tipo di mobilità da quella verso l’Europa[17].
I corridoi migratori più battuti sono tipicamente brevi, conducono verso stati confinanti o comunque piuttosto vicini, e sono talvolta favoriti da legami etnici o culturali transfrontalieri, come quelli tra le comunità fulani (peul), akan, ovvero tra i mossi e i senufi. L’origine coloniale e la natura artificiale delle frontiere, del resto, giustificano in qualche modo l’idea che siano i confini che attraversano gli africani, non loro che attraversano i confini[18].
Ma le affinità culturali che favoriscono la mobilità possono essere anche di tipo diverso, moderno, come la lingua che accomuna Ghana e Nigeria, i due principali paesi anglofoni della regione che, pur non confinanti, hanno sviluppato densi flussi migratori bidirezionali. La complessità delle dinamiche di mobilità tra i due paesi è accresciuta da un passato che include episodi di espulsioni su larga scala e da un presente fatto anche di spostamenti di imprenditori, professionisti e altre figure appartenenti ai ceti medio-alti di entrambi gli stati.
Perno della mobilità intra-regionale dell’Africa occidentale è la Costa d’Avorio, il secondo paese africano per numero di immigrati – quasi 2,6 milioni – che risiedono nel territorio nazionale. Abidjan è superata dal solo Sudafrica, e non di molto, mentre al quarto posto, dopo l’Uganda, c’è un altro paese dell’area occidentale, la Nigeria con 1,3 milioni di immigrati[19]. L’apertura ivoriana nei confronti dei lavoratori provenienti dai paesi circostanti – Burkina Faso, Mali, Guinea e oltre – per soddisfare le esigenze del cruciale settore del cacao e, in misura minore, di quello del caffè venne esplicitamente teorizzata negli anni Sessanta dal primo presidente, Félix Houphouët-Boigny, al quale è attribuita la massima “la terra appartiene a chi la coltiva”.
Oggi nel paese risiedono, come detto, 2.565.000 immigrati, oltre la metà dei quali è di origine burkinabé (1.376.000, pari al 54%), con un altro quinto proveniente dal Mali (522.000, pari al 20%). Pur costituendo ‘solo’ il 10% della popolazione residente in territorio ivoriano, gli immigrati generano circa il 19% del Pil nazionale e – come nel vicino Ghana – pagano tasse superiori ai servizi che utilizzano[20]. Anche in Costa d’Avorio, tuttavia, nonostante gli ampi spazi a lungo concessi all’ingresso di stranieri e il loro importante ruolo economico, i massicci flussi migratori non hanno mancato di generare stereotipi negativi, risentimenti e anche dure reazioni da parte delle popolazioni locali nei confronti dei ‘nuovi’ arrivati.
Tra fine anni Novanta e inizio anni Duemila la politicizzazione della questione migratoria portò a vaste discriminazioni – nonché all’allontanamento di moltissimi coltivatori stranieri, principalmente burkinabé – e poi allo scoppio di conflitti armati.
Se le centinaia di migliaia di lavoratori agricoli emigrati da Burkina Faso e Mali verso la Costa d’Avorio sono da decenni una componente portante della mobilità regionale, con la crisi e le violenze che hanno destabilizzato Abidjan a cavallo del cambio di secolo, la direzione di questi flussi è diventata più variegata, con ritorni verso Burkina Faso e Mali e – soprattutto nel caso del secondo – un incremento di arrivi da altri paesi.
Ad alimentarli, a partire dal 2012, anche la “corsa all’oro” verso le miniere artigianali ricavate lungo un ricco filone scoperto nella fascia saheliana centrale, che tocca anche Senegal e Guinea. Non si tratta in questi casi dei soli migranti minatori, poiché il loro arrivo è tipicamente seguito da quello di “migranti secondari” che svolgono tutta una serie di funzioni e servizi necessari ai primi, dai trasporti alla ristorazione e alla vendita al dettaglio. Ancora una volta, le abitudini regionali alla mobilità e le norme sulla libertà di movimento interna all’Ecowas hanno favorito la rapida evoluzione di queste dinamiche.
[1] Con “Africa occidentale” si fa qui riferimento a tutti i paesi che fanno parte dell’organizzazione regionale denominata Ecowas (si veda oltre) e alla Mauritania.
[2] Afrobarometer, In search of opportunity: Young and educated Africans most likely to consider moving abroad, 28 marzo 2019. Dati analoghi sono quelli di un’altra survey, effettuata da Pew Research, Cfr. “Europe is sending African migrants home. Will they stay?”, The Economist, 31 marzo 2018.
[3] H. Dia, “Senegalese migratory strategies: adapting to changing socioeconomic conditions in the long term”, International Organization for Migration, Migration in West and North Africa and across the Mediterranean. Trends, risks, development and governance, Ginevra, 16 settembre 2020, p. 283.
[4] Ibidem.
[5] P. Quartey, M. Boatemaa Setrana, C. Addoquaye Tago, “Migration across West Africa: development-related aspects”, in International Organization for Migration, Migration in West and North Africa and across the Mediterranean. Trends, risks, development and governance, Ginevra, 16 settembre 2020, pp. 270-274.
[6] B. Barbara, “Migration induced by climate change and environmental degradation in the Central Mediterranean Route”, International Organization for Migration, Migration in West and North Africa and across the Mediterranean. Trends, risks, development and governance, Ginevra, 16 settembre 2020, pp. 318-325.
[7] Ibidem.
[8] “Flussi” fa riferimento ai migranti che entrano o escono da un determinato paese (o area), con “stock” si dà invece conto del numero di immigrati presenti in un determinato paese (o area), frutto del cumularsi dei flussi passati.
[9] Salvo dove diversamente specificato, i dati sono tratti da United Nations Department of Economic and Social Affairs, International Migrant Stock 2020, Population Division, 2020.
[10] L’Ecowas, come precisato più avanti nel testo, è un’organizzazione regionale di cui fanno parte tutti gli stati della regione a eccezione della Mauritania.
[11] H. Dia, “Senegalese migratory strategies: adapting to changing socioeconomic conditions in the long term”, cit.
[12] L. Yuen, “Overview of migration trends and patterns in the Republic of the Niger 2016-2019”, in International Organization for Migration, Migration in West and North Africa and across the Mediterranean. Trends, risks, development and governance, Ginevra, 16 settembre 2020, pp. 77-85.
[13] United Nations Department for Economic and Social Affairs (Undesa), World Population Prospects 2022, 2022.
[14] Il Protocollo stabilì il diritto dei cittadini dei paesi dell’Ecowas a entrare, risiedere e avviare/condurre attività economiche nel territorio di uno qualsiasi degli altri stati appartenenti all’organizzazione. Le tre fasi per la sua attuazione prevedevano, nell’ordine, l’esenzione dai visti (implementata, anche attraverso l’introduzione del passaporto Ecowas nel 2000), il diritto di soggiorno (implementato tramite permessi di residenza), e il diritto di condurre attività economiche in un altro stato membro (ancora in fase di attuazione). A/P 1/5/1979, Protocol Relating to Free Movement of Persons, Residence and Establishment
[15] African Union, African Development Bank, Uneca, Africa Regional Integration Index. Report 2019, Addis Ababa e Tunisi, 2019.
[16] Afrobarometer, In search of opportunity: Young and educated Africans most likely to consider moving abroad, cit.
[17] B. Boukaré “The development impact of ‘gold rushes’ in Mali and Burkina Faso: the multifaceted effects of migration on artisanal gold mining sites”, in International Organization for Migration, Migration in West and North Africa and across the Mediterranean. Trends, risks, development and governance, Ginevra, 16 settembre 2020, pp. 287-295.
[18] International Organization for Migration, Africa Migration Report 2020. Challenging the narrative, Addis Ababa, 12 ottobre 2020, p. 78.
[19] United Nations Department of Economic and Social Affairs, International Migrant Stock 2020, cit.
[20] “Many more Africans are migrating within Africa than to Europe”, The Economist, 30 ottobre 2021.