di Massimo Franco
È stata un’iniziativa tattica.
E l’esito ha riflesso questo peccato originale, aggravato da riserve mentali e pregiudizi ideologici. Probabilmente non si poteva sperare in molto di più, vista la situazione precaria delle opposizioni e le difficoltà in incubazione della maggioranza. I sondaggi descrivono uno stallo elettorale con la destra saldamente al comando.
Ma verrebbe da dire che quello di ieri tra la premier Giorgia Meloni e i suoi vice Antonio Tajani e Matteo Salvini, e il caleidoscopio delle opposizioni, con Elly Schlein e Giuseppe Conte in testa, è stato un incontro tra debolezze. Il solo fatto che sia avvenuto va registrato positivamente. Il sospetto che non abbia prodotto un vero dialogo, però, è corposo. Pd e M5S l’hanno chiesto perché il salario minimo è uno dei pochissimi temi sui quali non siano distanti.
Ha permesso loro di additare quella di destra come una coalizione «contro i poveri» dopo l’annuncio dell’abolizione del reddito di cittadinanza: benché in precedenza lo stesso partito di Schlein lo avesse criticato. E Meloni ha accettato l’incontro di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi dopo avere rintuzzato le accuse anche col blitz controverso della tassa sugli extraprofitti delle banche. La strambata è stata applaudita dai grillini, ma ha bruciato miliardi e creato diffuse perplessità internazionali.
La mossa, tuttavia, ha permesso alla premier e a Salvini di riequilibrare il proprio profilo «sociale», nonostante le critiche di Forza Italia e il tentativo del ministro leghista all’Economia, Giancarlo Giorgetti, di ridurre la portata dell’annuncio. I vertici del governo si sono seduti al tavolo avendo anche loro uno scalpo da sventolare: i soldi sottratti al sistema bancario, da dirottare sulle fasce deboli in vista di un autunno che si profila ad alta tensione sociale; e con un esecutivo a caccia di soldi per mantenere le promesse elettorali.
Per di più, la coalizione di destra sapeva di poter contare sulle crepe nelle opposizioni, tra i distinguo di Carlo Calenda e l’assenza di Matteo Renzi, attirato nell’orbita governativa. Il cumulo di argomenti conflittuali che ha preceduto il vertice di ieri ha schiacciato le buoni intenzioni, se esistevano. E la conclusione ripropone posizioni cristallizzate: sia perché è l’unico modo per neutralizzare spinte centrifughe dentro i due fronti, prima ancora che tra loro; sia perché con la campagna elettorale per le Europee alle porte nessuno si azzarda a concedere alcunché per timore del «fuoco amico».
La premier può affermare di avere mostrato disponibilità a ascoltare le minoranze parlamentari. E queste ultime possono rivendicare di avere costretto Palazzo Chigi a incontrarle e a discutere, sebbene senza successo. Una volta fotografati i rapporti parlamentari, da domani riprenderanno le polemiche e i distinguo. Per le opposizioni, si manifesteranno non soltanto nei confronti del bersaglio naturale ma apparente, e cioè il governo di destra.
La conflittualità continuerà in primo luogo dentro il loro schieramento, per definire i rapporti di forza a sinistra e decidere chi guiderà un arcipelago composito e in eterna ebollizione; e con quale agenda. La rincorsa a radicalizzare la protesta è già partita, tra Pd e Movimento 5 Stelle: il salario minimo è solo l’inizio di una strategia che mira a cavalcare le «piazze». Per il governo, i problemi saranno diversi ma simmetrici.
La competizione tra Giorgia Meloni e i suoi alleati, Salvini e Tajani, affiora quasi su ogni tema. È interessante registrare la motivazione con la quale la premier e i suoi vice si sono visti nei giorni scorsi: «proteggere il governo» dalla campagna per le Europee. Proteggerlo non dagli avversari ma da sé stessi, dalle pulsioni centrifughe, da un’identità tuttora in bilico tra una metamorfosi moderata e la tentazione rischiosa di una sorta di «grillismo» di destra.