La prova del 9

Lavoro

Il confronto, il duello, lo scontro sul salario minimo (il lessico è condizionato dal momento) si è trasformato come al solito in Italia in una palestra di retorica in cui la forma conta più della sostanza

Il confronto, il duello, lo scontro sul salario minimo (il lessico è condizionato dal momento) si è trasformato come al solito in Italia in una palestra di retorica in cui la forma conta più della sostanza. Le opposizioni unite rivendicano un salario minimo di 9 euro dimenticando che secondo i criteri della direttiva europea, spesso citata a sproposito, da noi la soglia al di sotto della quale non si dovrebbe andare dovrebbe essere fissata al 7,64 euro.

Anche perché dei 21 Paesi che hanno questo istituto nell’Unione Europea 15 lo hanno più basso della cifra che Bruxelles suggerisce a noi, capeggiati dalla Spagna che ha un minimo salariale di 6 euro l’ora. Sul versante del governo, invece, la novità è il coinvolgimento del Cnel: una scelta che non è una soluzione, che introduce un nuovo protagonismo che può semplificare come complicare (esperienza docet), ma che ha almeno il merito di uscire dal recinto claustrofobico a cui la sinistra ha condannato il confronto trasformando la propria proposta in una bandierina da sventolare secondo le regole del populismo e dell’ideologia.

In realtà per dare sostanza al dibattito bisognerebbe partire da due verità incontestabili: in Italia gli stipendi sono bassi come è bassa nello stesso tempo la produttività. Sono i due corni del problema, l’uno legato indissolubilmente all’altro.

Ecco perché parlare solo di salario – questione che indubbiamente esiste – è limitativo. Come pure affrontare il tema del salario minimo è solo un aspetto del problema e i consigli della Commissione Ue stanno lì a dimostrarlo. Bisognerebbe essere più concreti e meno ideologici e, soprattutto, osare con la fantasia. Ad esempio l’idea propugnata da più parti, a cominciare da un sindacato come la Cisl, di aprire alla partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa è tutt’altro che campata in aria.

Si tratta di un argomento annoso, che si perde nella notte dei secoli. Il primo a parlarne addirittura fu un decreto napoleonico del 15 ottobre 1813 emanato dal quartiere generale di Mosca che regola la partecipazione della Comédie francaise agli utili netti dell’esercizio del Théatre Francais. Poi se ne è congetturato tanto e la suggestione nel ‘900 è finita nelle maglie dell’ideologia che l’ha utilizzata secondo la propria visione del mondo.

Anche la nostra Costituzione ne parla e i sostenitori di oggi tirano in ballo l’art. 46 della Carta. In Europa negli ultimi anni in alcuni Paesi (Francia e Germania) sono state realizzate esperienze di questo tipo sulla spinta delle forze riformiste. Ma il punto non è la Storia, né quello che hanno fatto gli altri. Quest’ipotesi, tutta da studiare, almeno affronta entrambi i limiti che penalizzano il nostro Paese. Far partecipare i lavoratori agli utili è un modo, infatti, per coinvolgerli nel successo dell’impresa: è un meccanismo che da una parte dovrebbe garantire un aumento dei salari e dall’altra stimolare la produttività.

Ora non è detto che sia la soluzione preferibile, ci possono anche essere altre ipotesi in campo. Largo alla fantasia. L’importante è non trasformare il confronto in un braccio di ferro su un numero. Sarebbe questa sì davvero la prova del 9 che proprio non ci siamo.

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