L’eccezionale storia degli autoesperimenti in medicina (iltascabile.com)

di Massimo Sandal 

Un’intervista a Silvia Bencivelli, autrice 
di Eroica, folle e visionaria.

La medicina è una disciplina strana e terribile: il suo soggetto sono le sofferenze, le nostre sofferenze. E per snidarle, trovarne il punto debole e annientarle, deve sperimentare su dei corpi. Così, è accaduto che, in passato, scienziati e medici si rivolgessero al primo corpo che trovavano: il proprio. Un salto nel buio oggi inconcepibile, che ha fatto la storia della ricerca medica. Eppure oggi è quasi dimenticato, o è ridotto a spigolatura da Settimana Enigmistica.

Invece questo mosaico semisconosciuto di esperimenti su di sé, di autoesperimenti, ha moltissimo da dire su di noi e sulla medicina, come dimostra l’ultimo libro di Silvia Bencivelli, Eroica, folle e visionaria (Bollati Boringhieri, 2023). Bencivelli, laureata in medicina, giornalista scientifica e divulgatrice, dissotterra e racconta le storie rocambolesche di scienziati che decidono di affrontare l’ignoto sulla propria pelle. Racconta gli autoesperimenti che hanno illuminato le cause di malattie che uccidevano o causavano sofferenze a milioni di persone come lo scorbuto e la pellagra; quelli che hanno segnato l’alba dei vaccini e dell’anestesia; ma anche autoesperimenti dimenticati, fallimentari, eppure non meno interessanti. Storie a volte struggenti, a volte dissennate, spesso cinematografiche, sempre con la sorpresa dietro l’angolo.

Le storie di medici che dal 1600 al Ventesimo secolo sperimentarono su loro stessi non sono una mera Wunderkammer della (inco)scienza medica. Sono dei sentieri che percorrono il cuore tormentato del rapporto tra corpo, scienza e società.

Alcuni esempi. C’è Evan O’Neill Kane, che si estrae da solo un’appendice per dimostrare la praticità dell’anestesia locale, e Eusebio Valli, che voleva essere Pasteur con troppi decenni in anticipo, torturandosi inutilmente con pestilenze e improbabili proto-vaccini. C’è la storia di Max von Pettenkofer, scienziato sul viale del tramonto, che voleva confutare la teoria dei germi di Koch, e c’è quella di Jan Purkinje, che provò senza sosta dozzine di potenziali farmaci. C’è la storia di Gianni Pauletta, dimenticato, morto di shock anafilattico a 34 anni dopo aver testato su di sé un antibiotico.

Ma questa serie di episodi bucanieri, che dipingono un black mirror della storia della medicina, della sua miseria e nobiltà, dal 1600 al Ventesimo secolo, non è una mera Wunderkammer della (inco)scienza medica. Sono delle porte, dei sentieri, che percorrono il cuore tormentato del rapporto tra corpo, scienza e società.

Perché parlare di autosperimentazione?

Forse la verissima storia di questa idea non la ricordo. Però, specie dopo la pandemia, ho maturato una decisa insofferenza per come la medicina viene raccontata sui media. Se ne parla per tecnicismi atemporali, completamente vuoti del significato culturale che la medicina ha accumulato nei secoli. Le cose vengono dette apoditticamente, in maniera acritica, da esperti che ti dicono verità eterne: fa bene/fa male. Invece non è così. C’è una comunità di scienziati che, seguendo quelli che in una data epoca sono i criteri scientifici, cercano di fare delle cose. Si pongono delle domande, cercano risposte, nel frattempo litigano, fanno errori. Magari mentono, a volte persino rubano.
E l’autoesperimento come si inserisce in questo discorso?
È un tema un po’ pop, che potrebbe essere il trionfo dell’aneddotica. Ma, raccontato bene, permette di recuperare quella dimensione che il giornalismo dimentica. Gli autoesperimenti sono wow, sono divertenti, ma sono anche un filo rosso attraverso il quale raccontare la storia della medicina (anche se, ci tengo a ricordarlo, non sono una storica della medicina e non pretendo di esserlo; sono una giornalista scientifica). Ed è un approccio originale, perché non ci sono molti libri sul tema.
Una delle prime cose che fai notare nel libro infatti è che di autoesperimenti si parla pochissimo, nella letteratura tanto accademica quanto divulgativa. Nonostante sia stato un passaggio fondamentale in molti casi.
C’è veramente poco materiale. Il principale è un libro uscito in America nel 1986, Who Goes First? di Lawrence K. Altman. Oggi è difficile da trovare. Per me è stato fondamentale per due motivi. Il primo è che contiene le interviste ad alcuni di questi autosperimentatori, che all’epoca erano ancora vivi. La seconda è che lo fa con una chiave nostalgica, del tipo ah, guardate questa bella tradizione che stiamo purtroppo perdendo. Che è esattamente l’opposto della chiave che ho adottato io.
Un po’ mi stupisce. Il tuo titolo suona molto accattivante, positivo, richiama un passato glorioso.
“Eroi”, “eroico” erano parole che si usavano spesso in pandemia. L’eroismo è un’etichetta che periodicamente la medicina si mette o si fa mettere addosso. “Folle e visionaria” perché, se effettivamente qualcuno ci ha lasciato la buccia senza dare nessun contributo all’umanità, qualcun altro invece ha fatto delle cose seminali che, altrimenti, sarebbero arrivate magari un secolo dopo. Non voglio dare una visione negativa dell’autoesperimento. Ma è una storia conclusa. È una esperienza fatta e finita, che probabilmente non si riaprirà più, anche se ci ha insegnato molto.
C’è qualcosa di particolare nei medici, nella medicina, che predispone a lanciarsi in questo eroismo folle e visionario?
L’ambizione sfrenata è presente in tutta la scienza. Casi di gente che si è messa nei guai per poter arrivare prima li abbiamo da tutte le parti. I medici però sono dei personaggi un po’ particolari. Tutti quelli che hanno fatto medicina, come me, pensano di aver preso, assieme alla laurea, una specie di certificato di immortalità. Noi medici ci sentiamo spesso invulnerabili, e così finisce che i medici sono quelli che, per esempio, fumano di più e si controllano di meno. E i medici in un certo senso fanno di continuo prove su di sé. Anche io stessa posso dire che, avendo avuto una prescrizione che non mi convinceva, ho modificato il dosaggio, ho associato cose. Pasticciamo, perché abbiamo studiato e quindi possiamo, capiamo. O perlomeno abbiamo questa presunzione.
Inoltre la medicina ti impone sempre di essere spericolata, o quantomeno molto coraggiosa. È quello che mi ha allontanato dalla professione medica: io non riuscivo a pensare di avere in mano la salute del paziente, di avere la responsabilità non ti dico della sua vita ma anche della sua felicità. Mi mettevo costantemente in dubbio: un po’ è utile, ma lo facevo troppo, pensando al potere che potevo avere io nei confronti dell’altra persona, di quel corpo. Se vuoi essere medica, devi accettare la sfida della biologia, dei corpi altrui. E magari del proprio.
Sfidare il proprio corpo, prima di quello altrui.
Per decenni l’autoesperimento è stato giustificato con l’imperativo di “non fare mai agli altri quello che non faresti a te”. Ma era quasi sempre una scusa. Va detto che, anche prima che esistessero i comitati etici, probabilmente un ricercatore poteva avere delle remore a fare esperimenti estremi su qualcun altro. La verità però è che molti autoesperimenti sono stati fatti per comodità. Perché tu stesso sei la cavia più vicina, la più ovvia. O perché te lo chiedeva il tuo capo. A me ha colpito la quantità di gente che ha fatto esperimenti su di sé per risparmiare soldi. Come Wilbur Olin Atwater, che faceva esperimenti su di sé perché altrimenti sarebbero costati troppo. E quindi si rinchiudeva per tre giorni dentro una stanzetta sigillata, a mangiare e a fare poco altro, per misurare il metabolismo. Gli serviva un corpo e non poteva pagarselo.

Infine, è stata una scusa che in casi limite serviva per giustificare una porcata. Per rispondere all’accusa di aver fatto esperimenti sulle popolazioni svantaggiate: carcerati, neri, eccetera, o per giustificare la ricerca sugli animali, dicendo “noi facciamo gli stessi esperimenti su di noi”. Vedi quello che ha fatto Daniel Zagury.

Zagury, che ha testato su di sé un vaccino per l’HIV. E su ventidue bambini zairesi, usando una partita destinata alla sperimentazione sulle scimmie, con ben pochi scrupoli bioetici.

Infatti quello è l’ultimo autoesperimento conclamato, che finisce sulla stampa raccontato in grande, alla fine degli anni Ottanta del Ventesimo secolo. Poco prima che il clima etico cambiasse definitivamente.

(Conquerors Of Yellow Fever, di Dean Cornwell (1941). Il dottor Reed è ritratto al centro, in piedi)

Come è avvenuto questo cambio di paradigma?

Tra gli anni Ottanta e Novanta c’è stata una rivoluzione in medicina. Si è cominciato a fare statistica, ad applicare metodi, sono arrivati i dati e i computer ma soprattutto è cambiata la mentalità. Per esempio si è sviluppata la politica sanitaria in maniera capillare. E questo ha corrisposto a una maturazione etica per cui il vecchio modello paternalistico della medicina clinica è stato man mano sostituito dall’attuale modello dell’alleanza terapeutica, che riconosce al paziente identità, cultura, capacità di comprensione, di decisione e di scelta. Parallelamente cambiava anche il medico ricercatore, sempre meno prometeico e sempre più umano, anche perché con i nuovi metodi della ricerca il singolo dato su di sé aveva sempre meno valore… Medici e ricercatori sono cresciuti di numero, sono diventati tanti.

C’è stato anche un cambiamento da parte del pubblico. Gli adolescenti che nei primi anni Sessanta facevano le superiori, hanno fatto l’università nel Sessantotto. Nel dopoguerra figli degli operai e dei contadini si sono trovati a fare le superiori e molti di loro hanno avuto accesso all’università. È stata una rivoluzione sociale e questi, crescendo, hanno impostato un nuovo rapporto con l’autorità, sempre più dialettico. In campo medico questo si è tradotto nel passaggio della medicina moderna dal modello paternalistico a quello dell’alleanza terapeutica, che poi viene cristallizzato più o meno nel codice deontologico oltre alla fine degli anni Novanta.

Quando mi sono laureata nel 2002 i professori discutevano su come noi dovessimo rispettare il paziente: perché se tu, medico, conosci la medicina, il paziente conosce se stesso. Tutto quello che deve essere fatto deve essere scelto con lui, perché lui sa di sé. Questa maturazione avvenuta nel giro di una ventina d’anni è stata anche la fine dell’autoesperimento. Il medico oggi non può più essere un paternalista che ti dà le medicine e ti dice “stai zitto”. E non può nemmeno essere quello che si presenta al mondo come fece Zagury dicendo “l’ho fatto su di me perché io sono un grande medico”.

Ai tempi l’autoesperimento quindi poteva anche essere uno strumento di propaganda, di comunicazione. Un modo per creare un mito.

L’autoesperimento creava un eroe. Se all’eroe va male ti crea un martire, e se è sopravvissuto può andare bene lo stesso. Ma tanti in realtà lo hanno fatto senza dirlo in giro, semplicemente perché era una cosa normale. Siccome però fuori dalla comunità scientifica questa cosa viene vista come eroismo, se fa comodo lo sbandieri.

Però la retorica dell’eroismo in medicina non è finita.

Ma poi la buttiamo via in fretta. All’inizio della pandemia era tornata la narrazione del medico eroe, ché stava in ospedale 24 ore su 24, sette giorni su sette. Che fine hanno fatto quei medici? Oggi hanno cambiato lavoro, si sono persi; molti sono morti, ricordiamoci anche questo. Oppure sono andati a lavorare nel privato. Io ho un amico chirurgo che lavora più adesso che sotto covid. Però ora nessuno lo chiama eroe: è un poveraccio che non riesce a cenare coi figli. Insomma all’inizio della pandemia venivano applauditi come eroi, e ora sono devastati dal burnout. Oggi i medici stanno male nel nostro Paese.

Ho notato che parli poco o nulla di chi sperimenta sostanze psicoattive. Accadeva con Hoffmann, ai tempi dell’LSD, e accade tuttora. Perché questa scissione?

Perché mi interessa la medicina in senso stretto.

Ma è comunque lo studio di un effetto sull’organismo.

Un secolo e mezzo fa avresti avuto immediatamente ragione perché all’alba dell’anestesiologia o dei farmaci contro il dolore il confine tra droga e farmaco era veramente molto labile. Come lo è stato per molta parte della storia dell’umanità. Però a me quello che prova la nuova molecola fa un po’ l’effetto di quello che trova la nuova ricetta in cucina e poi se la mangia prima di offrirla a degli amici. Faccia pure, ma non è quello che mi interessava inserire nel libro. Io devo avere una definizione, un confine. Per me era l’esperimento in ambito medico. In senso stretto, quindi ho escluso anche l’ambito psicologico.

L’esperimento che cerca una cura per il corpo.

A me interessano i corpi. Mi interessa il corpo come bandiera, come oggetto di propaganda, come oggetto di potere. Se pensi agli operai che scavavano il canale di Panama e sono morti di febbre gialla, sono corpi morti a causa del potere. Ed è il potere che ha deciso di risolvere il quesito scientifico, mandando laggiù quattro grandi scienziati. Ma l’intenzione di chi li ha mandati non era certo quella di salvare le popolazioni locali. Chi li ha mandati voleva aprire il canale di Panama, conquistare l’America. La medicina ha molto a che fare con la nostra economia e la costruzione delle nostre società.

Quindi l’autoesperimento ha avuto un senso (bio)politico?

A volte sì, ha avuto un significato importante. Nel caso di Walter Reed, spedito a Panama con i suoi colleghi per sconfiggere la febbre gialla, l’autoesperimento (o presunto tale) è stato dirimente per gestire una questione di potere. Poi c’è anche il potere accademico. Pettenkofer per esempio sperimenta su di sé per rabbia, per una questione di prestigio scientifico. L’estremo tentativo che fa per dimostrare che Koch è un incapace – e fallisce, perché in realtà Koch ci ha visto assai lungo. Ma Koch a sua volta è un medico molto legato alla politica tedesca, risolve il problema del colera e di nuovo c’è un altro fronte di conquista globale verso l’Africa. Con Pasteur e Koch che si trovano a sostenere l’origine infettiva del colera per un braccio di ferro con l’Inghilterra, che invece aveva tutto l’interesse a nascondere il rischio che l’apertura del canale di Suez portasse epidemie in Europa. Sono medici, ma devono risolvere problemi legati alla conquista di terre o di via commerciale.

L’autoesperimento come l’equivalente medico dell’esploratore che affronta a suo rischio e pericolo nuovi territori da conquistare. Uno strumento colonialista.

Per qualcuno sicuramente lo è stato. L’autoesperimento è stato un elemento della medicina, che a sua volta è stata anche una delle armi per la conquista di popoli. Ma non solo. Quando tu fai un esperimento per un farmaco o una pratica medica, stai stabilendo che il tuo campione è un buon modello di tutta l’umanità. Se sperimenti su te stesso stai dicendo che tu vai bene. Ti stai eleggendo a prototipo dell’essere umano. Stai decidendo di essere l’uomo vitruviano. E già il fatto che fossero tutti quanti uomini – nel mio libro non ci sono donne, o quasi – significa aver già deciso di raccontare solo metà dell’umanità. Anche questa (per fortuna!) è una di quelle cose che stanno cambiando, e non è un caso che, di pari passo, l’autoesperimento diventi sempre più insensato.

E a volte vediamo che questa pretesa di rappresentatività fallisce miseramente.

Pettenkofer infatti si infetta con il colera ma non muore, anzi ha una diarrea anche abbastanza leggera. Probabilmente aveva avuto il colera pochi anni prima e aveva un grado di immunità, quindi non era il campione corretto. E non essendo il campione corretto, il suo autoesperimento giunge alla conclusione sbagliata.

Questa distorsione etica e ideologica dell’autoesperimento ti mette in imbarazzo, quando pensi ai risultati che ha ottenuto? È un problema che si ripresenta spesso in medicina: abbiamo dei dati, dei risultati che sono stati fondamentali, ma ottenuti in modi discutibili.

Nel caso dell’autoesperimento, direi di no. Mi disturba molto di più pensare a Tuskegee, un esperimento condotto, fino agli anni Settanta su quattrocento afroamericani affetti da sifilide, a loro insaputa. Qualcosa che è proseguito fino a pochissimo prima che io nascessi. Ma non credo che le colpe dei padri debbano ricadere sui figli. Secondo me è importante sapere che qualsiasi cosa diamo per scontata nella medicina di oggi è stata provata da qualcuno. Ci ricordiamo il grande scienziato, ma non quel primo essere umano che si è sottoposto a quella cosa, cavie di cui spesso abbiamo dimenticato nomi e cognomi, che non sempre ne sono stati felici o ne hanno avuto un vantaggio.

Gli scienziati di cui racconti avevano quantomeno il privilegio di una maggiore consapevolezza, e hanno avuto una voce per raccontarsi, rispetto a cavie inconsapevoli come quelle di Tuskegee. Mi domando se magari in un futuro vorresti raccontare una storia della medicina attraverso i soggetti che non hanno avuto voce.

Questo è un tema sicuramente molto bello, e forse è una riflessione necessaria. Una di queste storie può essere quella di Henrietta Lacks, di come i suoi familiari avrebbero potuto avere un beneficio che invece non è stato loro concesso. Ma la storia delle cavie umane è una storia drammatica e straziante. E confesso che se devo scrivere mi devo divertire. Se scrivo di una storia commovente, piango. Se scrivo di una storia divertente, rido e sto bene per giorni. Preferisco ridere.

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