Dall’Ungheria all’Ucraina
Lo spettacolo di arte varia degli intellettuali postcomunisti che si mescolano agli youtuber più impresentabili fa temere che in questi decenni l’autoritratto della sinistra sia stato tutto una truffa
Un antico e incoercibile riflesso autoassolutorio spinge molte brave persone a respingere qualsiasi analisi critica delle proprie posizioni politiche, con l’argomento che ben altre, ben più gravi e ben più evidenti contraddizioni caratterizzerebbero la parte avversa.
È un fatto che questo riflesso sia particolarmente diffuso a sinistra: il lettore giudichi da solo se la ragione è che tra gli elettori di sinistra ci sono più ipocriti o che tra gli eletti di destra ci sono più farabutti. Da un punto di vista puramente logico, personalmente, mi limito a osservare che le due ipotesi non si escludono reciprocamente.
Per quanto si possano detestare certi riflessi condizionati e certe concessioni al cattivo gusto del pubblico, bisogna ammettere che nel caso della guerra in Ucraina sarebbe però davvero arduo diffondersi sulle contraddizioni della sinistra senza dire una parola sulle incredibili giravolte compiute nel frattempo dalla destra. E il fatto che tale arduo compito sia brillantemente portato a termine da molti commentatori non fa che confermare l’importanza di tutta questa noiosa premessa.
Gli elogi di Silvio Berlusconi a Vladimir Putin, le ripetute occasioni in cui ne ha convintamente rilanciato le più spudorate falsificazioni propagandistiche e le tante altre imbarazzanti peculiarità del loro decennale rapporto, come tutto quel che riguardava Berlusconi, hanno suscitato nel corso degli anni, se non altro, un minimo di attenzione e anche di scandalo.
Le prodezze di Matteo Salvini sono state oggetto di internazionale spernacchiamento fino all’altro ieri, in particolare quando il leader della Lega ha avuto l’infelice idea di esportare il suo gusto per il triplo gioco in Polonia, Paese per ovvie ragioni, storiche e geografiche, assai sensibile al problema dell’aggressività russa (indimenticabile la faccia di Salvini nel momento in cui il sindaco con cui credeva di cogliere una bella photo opportunity gli mostra una maglietta di Putin come quelle da lui sfoggiate fino a pochi anni prima).
Molto meno ricordate e criticate sono invece le analoghe imprese compiute da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia fino all’invasione del 24 febbraio 2022. Eppure, dopo l’occupazione russa della Crimea nel 2014, Meloni e il suo partito si sono battuti per anni a sostegno di Putin e contro le sanzioni occidentali (come il Movimento 5 stelle, del resto). A sinistra, bisogna dirlo, nessuno si è mai spinto a tanto (il Movimento 5 stelle, infatti, non ha mai appartenuto al campo della sinistra, e questa storia ne è solo l’ennesima dimostrazione).
Il desolante panorama appena ricordato non costituisce però una buona ragione per ignorare un problema che invece riguarda proprio la sinistra italiana, la sua storia e la sua identità. Un problema che la guerra in Ucraina ha evidenziato in modo implacabile, e, almeno per me, persino sconvolgente.
Dall’invasione russa del 24 febbraio, i nomi più illustri dell’intellighenzia progressista hanno firmato appelli demenziali, ripieni delle più ridicole e già mille volte smentite fake news della propaganda putiniana; storici e filosofi che hanno insegnato nelle maggiori università e scritto sui principali quotidiani del Paese non hanno esitato a partecipare a convegni e pubblicare persino dei libri con fascio-populisti formatisi nella Gabbia di Gianluigi Paragone; accademici dei Lincei e filologi sottilissimi si sono mescolati a rinomati cialtroni del web, nazi-comunisti da operetta, blogger no vax e tutto il campionario di disperati che abitualmente tuonano contro il «mainstream» da qualche canale YouTube. Gente con cui in qualsiasi altro momento della loro vita non avrebbero accettato di prendere un caffè.
È vero, un simile spettacolo non era del tutto inedito. Un’ampia e istruttiva anticipazione ci era già stata offerta dal gran numero di politici e intellettuali di sinistra finiti a cantare le lodi di Giuseppe Conte, l’eroe dei due governi, dichiaratamente populista e sovranista fino al settembre 2019 (il “Conte uno”), convintamente europeista e occidentale dal settembre 2019 al febbraio 2021 (il “Conte due”), nuovamente filo-putiniano e anti-atlantista dal febbraio 2021 a oggi (prima in forme più ambigue e sofferte, durante il governo Draghi, poi sempre più esplicite, con il ritorno all’opposizione).
Con la guerra in Ucraina si assiste però a un innegabile salto di qualità. E si torna immediatamente dalla farsa alla tragedia. Naturalmente ora in molti avrebbero buon gioco a ricordare di averlo sempre detto: dalla sinistra non (o anche anti) comunista alla destra (più o meno) liberale, a tutti coloro che per decenni hanno contestato ambiguità, doppio standard e ipocrisie di un certo mondo pacifista (peraltro non solo di matrice ex Pci, ma anche cattolico).
In molti ora potrebbero dire: di che vi stupite? Cosa c’è di diverso dai tempi in cui dirigenti e intellettuali comunisti rilanciavano le peggiori calunnie sulla rivoluzione ungherese? Eppure quella vicenda segnò una spaccatura profonda, anzitutto tra gli intellettuali (che firmarono il famoso appello dei 101) e in parte anche nel gruppo dirigente comunista (il caso più famoso è quello di Antonio Giolitti).
Ha però una qualche importanza, per l’identità della sinistra italiana proveniente dal Pci, anche il modo in cui quella vicenda è stata poi raccontata ed elaborata, con tutta l’autoindulgenza, l’autocensura e il senno del poi di cui si è fatto ampio uso. Mi riferisco al tentativo di descrivere uno sviluppo lineare dal tragico errore del ’56, per usare uno dei tanti eufemismi di cui trabocca questa storia, alla scelta di condannare l’invasione di Praga del ’68, a tutto quel che è venuto dopo, con Enrico Berlinguer.
Si potrà legittimamente criticare il modo in cui i comunisti hanno così sminuito le loro responsabilità da un lato e ingigantito il loro ruolo e anche la portata del loro dissenso dall’altro, ma per l’identità di una forza politica, per i valori e gli orientamenti che trasmette ai propri militanti ed elettori, e alle successive generazioni, contano pure le versioni di comodo, le verità ufficiali e i luoghi comuni. Soprattutto i luoghi comuni: ripetuti fino allo sfinimento, introiettati e rilanciati anche da chi non ne abbia avuto alcuna diretta esperienza.
Si potrà dunque contestare il rigore storico di quelle narrazioni, ma non il loro senso: una traiettoria che si allontanava sempre di più dagli orrori (e dalle balle) del socialismo reale, per avvicinarsi gradualmente fino a identificarsi (anche qui, s’intende, non senza grande disinvoltura) con la socialdemocrazia occidentale, europeista e atlantista.
L’indegno spettacolo offerto oggi da politici e intellettuali di antica tradizione marxista, comunista o post-comunista pone dunque a chi ha in buona fede condiviso e difeso quella tradizione una domanda decisiva e ineludibile, di carattere morale prima ancora che politico. E cioè: quella narrazione è stata solo un imbroglio, un gioco delle tre carte, un puro incrocio di tatticismi e convenienze, come sempre e inevitabilmente intrecciato ai movimenti delle carriere e delle leadership personali? Quella storia, quella identità, quella tradizione aveva e ha ancora, insomma, un qualche senso, può ancora essere raccontata come l’evoluzione – sia pure sofferta, contraddittoria, difficile – di un grande partito, e del suo popolo, verso posizioni, come si sarebbe detto una volta, sempre più coerentemente democratiche e progressive, o era davvero soltanto una truffa?
Certo, quando il gioco era condotto a colpi di citazioni dal Capitale e dalla Fenomenologia dello Spirito, quando su Raitre poteva capitare di seguire il dibattito sulla teoria del valore di Marx tra Lucio Colletti ed Eric Hobsbawm, quando l’iniziativa politica e culturale abbracciava davvero il mondo intero e le sue infinite complicazioni, era pur comprensibile una qualche esitazione e confusione, o perlomeno una prudente sospensione del giudizio.
Ma dopo aver visto gli eredi e i custodi di quella tradizione politico-culturale ripetere le fregnacce dei più screditati guru da social network, parlare di vaccini, green pass e Donbas con gli stessi pseudo-argomenti dello zio scemo al pranzo di Natale, è difficile resistere al sospetto che al cuore di tanta profondità non ci fosse niente di niente.
Chi voglia salvare l’onore di quella tradizione e dunque l’identità della sinistra attuale, che per tanta parte ne discende, dovrà alzare la voce e abbandonare ogni timidezza. Non è più tempo di concessioni alla tattica e allo spirito del tempo. Gli storici di domani non saranno indulgenti come i giornalisti di oggi e non accetteranno giustificazioni.
(Un carro armato sovietico T-34/85 distrutto a Budapest)