di Goffredo Buccini
Poveri e migranti
Centomila migranti non dovrebbero costituire, in un grande Paese come il nostro, un’emergenza sociale. Non lo erano davvero nemmeno i 180 mila sbarcati nel 2016 (record, finora) anche se la destra lo strillava a pieni polmoni perché al governo c’era la sinistra.
Sbagliava la destra allora, come adesso sbaglia la sinistra ad alzare la temperatura sull’impennata di questi otto mesi del 2023 solo per mettere in difficoltà l’esecutivo Meloni. Il risultato, peraltro, è uno straniante effetto ottico: lo scambio di spartito tra immigrazionisti e anti-immigrazionisti, con taluni leader del Pd inclini ad accenti da leghisti d’antan.
L’Italia può gestire questi arrivi e, anzi, in verità il problema non sta nei numeri, visto che le imprese ci chiedono l’immissione di nuova forza lavoro straniera e prevediamo 452 mila ingressi nel decreto flussi triennale da poco varato: sta semmai nella qualità dell’immigrazione, nelle difficoltà di formazione e inserimento (purtroppo aggravate dal decreto Cutro), nelle disfunzioni d’un circuito dell’accoglienza da riformare; soprattutto sta nel complesso impatto dei nuovi venuti in quartieri ad alto rischio di disgregazione e di degrado.
Questo è il nodo. Il problema dell’immigrazione, non sembri un calembour, non è l’immigrazione in sé, è l’immigrazione in noi. Nel senso che i guai stanno in terraferma e sono quasi tutti precedenti al fenomeno migratorio.
E qui veniamo alla vera pressione che il governo si troverà ad affrontare a breve. Non sarà un autunno caldo, ha detto Giorgia Meloni. Ma il suo sembra più un auspicio che una promessa. Una complessa questione sociale attende l’esecutivo al rientro da ferie che non tutti gli italiani si sono potuti permettere. Essa ha due punti focali che si sovrappongono in parte.
Il primo è il tema del lavoro povero, sul quale opposizioni finora frantumate hanno trovato una bandiera comune: il salario minimo. Il Cnel, investito da Meloni del compito di studiare in sessanta giorni una piattaforma su cui la politica e le categorie possano ragionare, sembra ridurre di parecchio, come ha raccontato Mario Sensini su queste colonne, la platea dei senza tutela. Ma il dossier resta spinosissimo.
Anche perché le nuove povertà incrociano le periferie e il loro disagio, enfatizzandolo. Nel 2017 il Parlamento della XVII legislatura decise di mandare una commissione bicamerale soprattutto a esaminare lo stato di radicalismo dei nostri ghetti urbani (ancora risuonava l’eco degli attentati islamisti in Europa). Il risultato sorprendente fu, in assenza di jihadismo, la scoperta di un’Italia «di serie B» che faticava a tirare avanti, lottava contro i migranti per un alloggio popolare o un asilo; e che, messa in ombra dalla predicazione ottimista del riformismo renziano, eruttava rabbia.
Sei anni più tardi, a disagio accresciuto, dopo la pandemia che ha devastato il nostro sistema sanitario (al quale tuttora mancano miliardi e medici), la crisi energetica indotta dalla guerra, l’inflazione mai domata sui banchi del mercato e alla pompa di benzina, il welfare da reddito di cittadinanza azzerato nella sostanza, c’è molto di questa miscela a surriscaldare l’autunno che attende una legge di bilancio difficilissima.
E, forse, nella strambata neopopulista del governo Meloni, con l’inopinata tassazione degli extraprofitti bancari, c’è soprattutto il bisogno di mandare un messaggio di rassicurazione all’interno, accettando anche il danno all’immagine tranquilla che l’esecutivo ha cercato di proiettare per quasi un anno all’esterno.
Migranti e periferie sono facce della stessa medaglia. La Commissione del 2017 propose come ricetta l’investimento di un miliardo l’anno per dieci anni e un’agenzia ad hoc per occuparsene. Nulla accadde. Ora, il Pnrr dedicava alle amministrazioni locali poste importanti, 13 miliardi, di cui 2,5 per risanare le periferie più devastate e 3,3 per la rigenerazione urbana, migliaia di progetti, Scampia e Corviale in prima fila.
La cancellazione di 16 miliardi dal Piano ha colpito queste poste con sconcerto di sindaci e Comuni. Antonio Decaro, presidente Anci, sostiene che il 94% erano opere già aggiudicate, ma è anche vero che a novembre 2022 il Pnrr era da attuare in 5708 Comuni dei quali l’80% con meno di diecimila abitanti e una evidente difficoltà di gestione della spesa. I progetti «da mille euro sulle ringhiere» sono incompatibili con gli obiettivi strategici di innovazione e infrastrutturazione del Piano, ha detto la premier, pur assicurando che gli interventi verranno spostati su altre voci di bilancio dello Stato.
In frangenti così delicati per le istituzioni, il metodo è sostanza. Maggioranza e opposizione fanno mestieri diversi che tali devono restare. Ma ci sono temi sui quali non è utile dividersi. Talché, sul lavoro povero, è positivo l’incontro governo-opposizioni a ridosso di Ferragosto, mirando — come ha sostenuto Meloni su queste colonne — a una proposta normativa condivisa prima della legge di Bilancio.
Non basterà certo a sterilizzare la protesta (la Cgil ha preannunciato uno sciopero, diciamo così, a priori) ma apre una via. Come non basterà la nascita di una nuova Commissione periferie (istituita a marzo, presidente il forzista Alessandro Battilocchio) a placare il malessere dei Comuni e a dissiparne i timori di un nuovo abbandono: ma i tanti inviti al sopralluogo che già piovono sulla Commissione dai ghetti urbani sono una richiesta di mano tesa che non va lasciata cadere.
Infine, l’immigrazione: non è la febbre ma il termometro che la misura. Persino la vampata di questi giorni potrebbe insegnare qualcosa. Alla destra, che la strumentalizzò. Alla sinistra, tentata dal ripetere l’errore. Tra le molte posture che un Paese serio può assumere di fronte a seri problemi, quella dei capponi di Renzo è davvero la peggiore.