di Francesco Damato
L'ex An pensa a un movimento «aperto a tutti coloro che si aspettano un vero cambiamento,
quindi anche chi viene da sinistra, dal M5S e chi vorrà»
Non so con quanta sincerità, e non invece con quanta malizia, l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno ha voluto tranquillizzare anche pubblicamente la sua amica ed ex compagna di area – o camerata, direbbero a sinistra secondo l’abitudine appena contestata da Luca Ricolfi di vedere nero dappertutto – che non nascerà mai, almeno di sua iniziativa, un partito più a destra di quello che lei ha saputo realizzare su posizioni dichiaratamente, direi orgogliosamente conservatrici.
«Se faremo qualcosa – ha detto Alemanno a Libero del 15 agosto parlando ambiziosamente al plurale – non sarà la destra della destra, ma un movimento aperto a tutti coloro che si aspettano un vero cambiamento, quindi anche chi viene da sinistra, dal Movimento Cinquestelle e chi vorrà», magari pure dalla Lega.
Dalla quale si sospetta peraltro che sotto sotto l’ex sindaco di Roma venga corteggiato da tempo, persino con l’offerta di una candidatura nelle liste del Carroccio, come indipendente o in forma federativa con un suo movimento, nelle elezioni europee dell’anno prossimo. Poi nel nuovo Parlamento di Strasburgo non dovrebbe creare certo problemi ad Alemanno la confluenza in un unico gruppo con la destra francese di Marine Le Pen.
Che è quella contro la quale dall’Italia il segretario forzista Antonio Tajani, mostrando di parlare anche a nome e per conto del ben più vasto Partito Popolare Europeo, ha messo un veto che Giorgia Meloni ha contestato nella stessa intervista nella quale ha rivendicato il merito di avere deciso da sola, nel governo, di tassare gli extraprofitti bancari derivati dall’aumento dei tassi d’interesse.
È nata da questa rivendicazione – contestata a sua volta esplicitamente da Tajani annunciando che il provvedimento urgente dovrà subire nel percorso parlamentare altre modifiche ancora rispetto a quelle già apportate nel tragitto da Palazzo Chigi al Quirinale per guadagnarsi la firma del presidente della Repubblica- la “svolta decisionista” attribuita alla premier.
Attribuitale – aggiungo – con particolare vigore o scetticismo, come preferite, sulla Stampa dall’ex direttrice del missino Secolo d’Italia Flavia Perina. Che ha evocato la fine non proprio incoraggiante di altri «decisionisti» comparsi sulla scena repubblicana italiana, compreso o a cominciare da Bettino Craxi, prima impiccato come il cadavere di Mussolini nelle vignette dei giornali, e poi costretto all’esilio – o alla fuga, secondo gli avversari- per scampare al carcere a causa del finanziamento illegale del partito socialista e degli altri reati contestatigli dalla magistratura come appesi allo stesso ramo. Dall’Albania, raggiunta in traghetto dalla Puglia per una vacanza nella vacanza, la Meloni si sarà in qualche modo protetta con gli scongiuri adatti ad una donna, per quanto abituata sotto tutti i sensi a indossare pantaloni.
Per tornare ad Alemanno e alla sua promessa di non fare un partito alla destra della destra, ma un movimento in sostanza concorrente con quello di Beppe Grillo e di Giuseppe Conte sul fronte del populismo interno e internazionale, pacifista e per niente «guerrafondaio», come ha definito il ruolo assunto dalla Meloni sulla guerra in Ucraina, che pure è stata aperta da Putin e non da Zelensky; per tornare, dicevo ad Alemanno del suo progetto si potrebbe ripetere col compianto generale Charles De Gaulle che è un «vasto programma». Troppo vasto anche per la fantasia di noi italiani, capaci di fare in un partito di tre iscritti quattro correnti.
L’intervistatrice Brunella Bolloli ha interrotto ad un certo punto i ragionamenti di Alemanno dicendogli che le sembrava di «sentir parlare Travaglio, Santoro e Marco Rizzo». E lui, per niente imbarazzato, con la disinvoltura non di un ingegnere com’è lodevolmente riuscito a diventare quand’era ministro dell’Agricoltura sorprendendo a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi, ma di un acrobata o un prestigiatore ha risposto: «Infatti con Travaglio abbiamo fatto un convegno insieme».
Figuriamoci se il direttore del Fatto Quotidiano poteva trattenersi, vista la disinvoltura con la quale usa tutti i mezzi, fisici e materiali, a disposizione per colpire l’avversario di turno seduto a Palazzo Chigi dopo il passaggio quasi cavurriano – da Carlo Benso conte di Cavour- del mai sufficientemente rimpianto Giuseppe Conte.
«Quando ci sono grandi temi che riguardano l’interesse nazionale- ha detto Alemanno non devono esserci steccati, sono trasversali… Sulla guerra poi, vediamo da una parte il Pd a braccetto con la Meloni e dall’altra io e Conte che la pensiamo allo stesso modo». Ce n’è abbastanza, credo, per impensierire più Conte che la Meloni, almeno nel prosieguo delle loro vacanze.
Poi, in un autunno che vedremo se sarà più caldo o bollente, fra le iniziative parlamentari e di piazza, e col povero Renato Brunetta già appeso figurativamente a qualche cappio per avere accettato la richiesta della premier di occuparsi del cosiddetto reddito minimo col suo Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, verificheremo da quali altre tentazioni si lascerà prendere il primo e unico sindaco approdato da destra in Campidoglio.
Dove non era riuscito a salire neppure Gianfranco Fini appena sdoganato da Silvio Berlusconi in un emporio autostradale.