di Federico Rampini
Perfino nelle nostre democrazie c’è sempre chi
subisce il fascino dell’uomo forte.
Osservare con lucidità Vladimir Putin, Xi Jinping e i loro emuli, ispira la conclusione opposta: questa non è un’epoca di trionfi per le autocrazie. Le loro difficoltà si accumulano.
I fan di Putin vorranno interpretare la scomparsa di Prigozhin come una conferma che lo zar controlla la situazione, pur con metodi feroci. È vero il contrario.
Gli stessi putiniani d’Occidente diciotto mesi fa descrivevano l’armata russa come una forza irresistibile alla quale era vano opporsi; erano anche pieni di ammirazione per il Gruppo Wagner descritto come la punta di lancia di Mosca. Il bilancio: un anno e mezzo di guerra è stato un disastro rispetto ai piani di occupazione-lampo; Putin ha incassato umiliazioni tali da fiaccare e dividere le sue truppe; ha dovuto rintuzzare la rivolta dei mercenari.
Eliminare Prigozhin era il gesto obbligato di un dittatore: che non ha altra scelta se non l’escalation dei crimini, perché ha il terrore di mostrarsi debole. Quell’aereo precipitato o abbattuto, la rabbia dei miliziani di Wagner che gridano al tradimento: l’ultimo spettacolo offerto da Putin è l’equivalente dell’auto-amputazione di un braccio. E questo riguarda solo l’aspetto militare. I danni per la Russia sono ben peggiori.
Sul piano geopolitico Putin ha regalato alla Nato un immenso fronte settentrionale con l’allargamento a Finlandia e Svezia. Sul piano geo-economico ha distrutto un capitale di relazioni energetiche e industriali con l’Europa, che i suoi predecessori sovietici avevano costruito con pazienza per decenni. Il rublo crolla; la fuga di talenti e cervelli da Mosca e San Pietroburgo impoverisce una nazione già stremata. Putin ha ri-stalinizzato il suo Paese e tenta di compattarlo sulla base delle più arcaiche pulsioni imperialistiche. Il popolo russo ne pagherà prezzi enormi e per molto tempo.
Rivolgendosi al summit dei Brics in Sudafrica — in videocollegamento per non correre il rischio di essere arrestato — Putin ha lanciato le solite accuse sull’imperialismo dell’Occidente. In quell’intervento traspariva un messaggio implicito: ho perso cattivi amici ma il mio prestigio è intatto nel Grande Sud globale. Cioè, ha perso la Germania ma forse conquisterà il Niger. Bell’affare.
Se qualcuno può considerare come un successo l’allargamento dei Brics, è Xi Jinping. Cooptare nel club degli emergenti Arabia e Iran (tra gli altri) è un’operazione brillante della diplomazia cinese che espande la sua influenza in Medio Oriente. Xi porta avanti il suo piano globale: costruire un anti-G7, l’architrave di un nuovo ordine internazionale meno americano-centrico.
Anche lui eccita i nazionalismi delle élite del Sud, che adorano nascondere il proprio malgoverno usando come capro espiatorio l’Occidente, descritto come l’impero del male, sempre colpevole di colonialismo. L’efficacia della propaganda cinese non basta a nascondere tutto quello che va storto a Pechino.
Il governo censura le statistiche della disoccupazione giovanile perché il mercato del lavoro è un disastro. La crescita frena. Le esportazioni ristagnano. I capitali fuggono. Le imprese straniere perdono fiducia. Il «miracolo cinese» è stato sabotato da Xi con la sua sterzata dirigista e statalista. Si conferma la regola: le autocrazie non possiedono gli anticorpi che possano segnalare all’uomo forte quando sbaglia.
Nel club dei Brics forse potrà emergere come un modello alternativo l’India. Narendra Modi fa il pieno di critiche in Occidente per l’ideologia nazionalista indù; non brilla per tolleranza verso le minoranze. Però New Delhi resta una democrazia, conserva una libera stampa e una magistratura indipendente, oltre che il federalismo come antidoto alle tentazioni accentratrici.
Quest’anno supera la crescita del Pil cinese. Molte imprese occidentali stanno spostando almeno una parte dei loro investimenti verso l’India, per cautelarsi dai rischi geopolitici di una Cina sempre più ostile. Modi è un originale nei Brics per la sua equidistanza dai due blocchi: non applica sanzioni alla Russia ma rafforza i rapporti (anche militari) con l’America.
Nel Grande Sud globale il fascino dei modelli autoritari resiste — lo dimostra il crescendo di golpe militari in Africa. L’allargamento dei Brics contiene tante sfumature: lì dentro ci sono potenze che hanno «nostalgia d’impero» come arabi e persiani; ciascuno con la propria ambizione di dominio regionale; con calcoli opportunistici che possono dettare improvvisi rovesciamenti di alleanze. È anche il caso della Turchia di Erdogan, che mantiene una diplomazia degli equivoci in bilico tra Mosca, Kiev, Washington, Bruxelles.
Alcuni emergenti li abbiamo allontanati da noi con la nostra mancanza di pragmatismo energetico (Arabia) o con il nostro «estremismo umanitario» (vedi lo sciopero degli investimenti occidentali in Africa). Altri come Erdogan praticano una diplomazia imperiale anche perché il bilancio economico e sociale del loro governo è pessimo.
Nel nazionalismo, nella nostalgia d’impero, nell’anti-occidentalismo trovano ancora serbatoi per dei consensi reali: ma precari.