di Mirella Armiero
Con il suo sguardo su Napoli (e oltre)
Fabrizia Ramondino ci parla ancora
Militanza. Uscito il 6 settembre da e/o gli scritti politici dell’autrice scomparsa nel 2008. In questa pagina il testo della curatrice
Se la voce di Fabrizia Ramondino risuona ancora forte e chiara nel panorama italiano contemporaneo è anche per la vocazione politica che innerva la sua produzione letteraria, anzi la precede.
Ramondino pubblica Althénopis nel 1981 e sorprende la cerchia dei suoi amici e compagni. Pochi sanno che coltiva da tempo la scrittura, eppure tiene sul tavolo la cartellina con il manoscritto. Una volta uscito, il romanzo dalla lunga gestazione la impone alla critica e al pubblico. Con una felice invenzione, il titolo attribuisce una presunta radice semantica «occhio di vecchia», Althénopis appunto, al nome di Napoli, la città che un anno prima il terremoto ha sconquassato sia geologicamente sia moralmente.
Fino allo svelamento della sua vocazione di narratrice, Fabrizia Ramondino ha fatto politica più che letteratura. Eppure sono per lei due militanze tutt’altro che distanti. Alla base di entrambe c’è l’attenzione all’altro, alla voce dell’individuo dentro il brusio indistinto della moltitudine, alle classi sociali disagiate, marginali, oppresse, agli interni domestici e miseri, ai lavori materiali, che ha conosciuto fin da bambina, nella dorata infanzia maiorchina, attraverso la presenza della servitù e della balia con la quale ha condiviso la quotidianità.
Figlia di genitori alto borghesi e cosmopoliti, il suo apprendistato socio-intellettuale inizia dalla frequentazione di settori della sinistra eretica, con un forte interesse per le posizioni anarchiche e per il socialismo di Proudhon. Al ritorno dal primo dei numerosi soggiorni in Germania (raccontati poi in Taccuino tedesco), attraversa un periodo di depressione dalla quale la salvano le lezioni impartite alle figlie di una cameriera della madre.
Poi il doposcuola si allarga, arrivano altri bambini e anche adulti. Il primo attivismo della scrittrice è quello pedagogico, di impianto freinetiano, svolto all’Arn, l’Associazione risveglio Napoli, fondata insieme a una ventina di persone (tra cui Lamberto Borghi e Vera Lombardi), con sede nel centro storico di Napoli.
L’autrice racconta anni dopo le origini di questo impegno ne L’isola dei bambini: «…i bambini mi salvarono dal mio male… Celebravo, ma non lo sapevo allora, il mio passaggio all’età adulta, che per una giovane donna una volta significava fare un bambino, per me invece fu saperlo portare in spalla».
Con il Sessantotto si aprono fronti interni e divisioni, alcuni lasciano l’associazione. Agli inizi degli anni Settanta nello stesso edificio che aveva ospitato l’Arn, a Palazzo Marigliano, si riunisce il Centro di coordinamento campano. La militanza si andava trasformando sul piano politico e intellettuale, Fabrizia si avvicinava al metodo dell’inchiesta sociale, che si esprimerà pienamente nel suo primo libro, quello sui disoccupati organizzati.
Negli anni del Centro di coordinamento campano nascono amicizie e rapporti destinati a durare una vita mentre altri sono passeggeri, alcuni dolorosi, altri ancora proficui, necessari. È il periodo delle frequentazioni con Giovanni Mottura, che veniva dalla esperienza di Danilo Dolci e dai «Quaderni rossi», e con Enrico Pugliese, allievo di Manlio Rossi Doria. Lunghe riunioni, scontri, discussioni, ideologia ma non solo: Fabrizia Ramondino accoglie e rielabora lo spirito migliore del Sessantotto, quello dell’incontro con le persone reali, dell’ascolto delle loro esigenze, attraverso l’orizzontalità dello sguardo e la capacità di compiere gesti concreti di avvicinamento.
È Goffredo Fofi a commissionarle l’inchiesta sui disoccupati, che sarà pubblicata da Feltrinelli nel 1977. Le sue case — ne ha cambiate tante — sono frequentate dai disoccupati, che non hanno soggezione di lei, nonostante un certo suo tratto aristocratico e la scarsa familiarità con il dialetto. E il suo carattere a tratti ruvido non ostacola la nascita di rapporti profondi.
Il saggio del ’77 è costruito attraverso le interviste ai protagonisti di quella stagione combattiva, precedute da una lunga introduzione, più di quaranta pagine per molti versi lungimiranti. In particolare, l’autrice sottolinea gli errori della sinistra nei confronti del «proletariato marginale» e denuncia l’illusione relativa a un vagheggiato «capitalismo sano» che possa risolvere l’arretratezza del Mezzogiorno. La disoccupazione, invece, è una delle priorità da affrontare.
Siamo ormai a ridosso della consacrazione letteraria: dai Disoccupati organizzati ad Althénopis passano solo quattro anni, ma è un periodo cruciale per l’Italia, e tra il delitto Moro, il terrorismo, le stragi, tutto l’auspicato processo di modernizzazione sembra ormai fermo, effimero, illusorio. Per Fabrizia Ramondino è tempo di nuove prove narrative e intellettuali.
Gli anni Ottanta sono letterariamente produttivi: la scrittrice firma diversi libri, tra cui Un giorno e mezzo, il suo romanzo più schiettamente politico, un ritratto inedito e sincero (e soprattutto tracciato da una prospettiva interna) della generazione del movimento in Italia, in particolare a Napoli. Pubblicato nel 1988, ambientato nel 1969, Un giorno e mezzo rievoca il clima confuso e utopistico della contestazione, in un momento in cui si avvertivano già i sintomi della crisi.
Anche gli anni Novanta segnano un periodo di vitalità e di incontri, Napoli è ancora per certi versi nello stallo del post terremoto ma è anche percorsa da fermenti culturali innovativi. La città si prepara al suo imminente (ed effimero) rinascimento bassoliniano, che si affermerà tra il gigantismo un po’ smargiasso delle installazioni in piazza Plebiscito e finirà con la crisi dei rifiuti, di cui Fabrizia Ramondino scriverà sul «manifesto» anni dopo: «L’immondizia napoletana altro non è che l’emergere di tutta l’immondizia prodotta nel mondo da un capitalismo sempre più selvaggio».
Intanto da Napoli la scrittrice sta già guardando oltre. Dopo il crollo del Muro di Berlino succedono cose nel mondo che lei ha la necessità di capire. Con i viaggi e lo studio mantiene la sua rete di contatti e di interessi, nonostante a un certo punto, negli anni Novanta, decida di lasciare Napoli e ritirarsi nel «rifugio» di Itri (Latina), sempre comunque aperto agli amici.
Un capitolo importante nell’impegno civile di Ramondino si apre con il viaggio intrapreso su invito di Mario Martone, per realizzare un documentario dedicato ai Sahrawi, popolo del deserto che subisce l’esilio da parte del regime marocchino. La militanza tra i Sahrawi la riporta indietro, agli anni dell’Arn.
Anche nel deserto chiede ai bambini di disegnare, raccoglie e conserva i loro lavori, le donne accettano i suoi doni utili e non pomposi, come un set di forbici per lavori di cucito. Il rapporto con i Sahrawi è simile a quello che ha avuto con i disoccupati. Resta in lei lo stesso imbarazzo rispetto ai poveri, ai meno abbienti, e la stessa naturale predisposizione ad ascoltare, a fiancheggiare, non semplicemente a dare aiuto ma piuttosto a «fare insieme».
Ma soprattutto, fino alla scomparsa nel mare laziale nel 2008, Fabrizia Ramondino rimane fedele a sé stessa, alla sua visione del mondo, alla sua tensione etica e alla profonda capacità empatica verso l’altro, il debole, l’oppresso.
E conferma negli anni la sua giovanile intuizione, arrivata dopo l’esperienza dello smarrimento psicologico: «Dopo aver sperimentato la scissione della mia personalità, che i medici moderni, quando raggiunge un certo grado — quando cioè si è folgorati — chiamano schizofrenia, ho compreso la maggiore scissione della comunità umana: quella tra chi possedeva abbondanza di beni, potere, sapere e tra chi ne era privo».