È la demografia, stupidi
Il nostro Paese avrebbe bisogno di almeno duecentocinquantamila nuovi lavoratori, ma i partiti preferiscono evitare di parlare di questo gigantesco problema pur di non affrontarlo con responsabilità e razionalità
Le discussioni della quarantanovesima edizione del The European House – Ambrosetti di Cernobbio ruotano attorno al rischio della (quasi) morte demografica dell’Occidente e delle inevitabili ricadute sociali (insostenibilità del welfare) ed economiche (crollo del Prodotto interno lordo) di questo fenomeno.
È particolarmente significativo che un forum che dovrebbe occuparsi di economia parta e di fatto arrivi alla demografia, che è un tema di cui invece in Italia si discute, per lo più, per addebitarne le disgrazie al tramonto della cosiddetta famiglia tradizionale, come se in Italia si facesse oggi un figlio per ogni tre che se ne facevano cinquant’anni fa per un sordido complotto delle lobby gay e non per trasformazioni socio-culturali comuni a tutte le democrazie avanzate, aggravate nel nostro Paese da una spesa pubblica gerontocratica quanto altra mai.
D’altra parte se oggi le morti quasi doppiano le nascite (dodici contro sette ogni mille abitanti, nel 2022), e, come ricordava Giuliano Cazzola qualche giorno fa su Linkiesta, nel 2050 gli ultra ottantenni supereranno per numero i giovani tra gli zero e i quattordici anni, non ci vuole Cassandra per vaticinare per l’Italia un fine vita tutt’altro che eutanasico.
Una popolazione sempre più vecchia costa sempre di più e produce sempre di meno e, prosciugati i risparmi e venduti l’argenteria e gli arredi, non avrà neppure di che pagare cronicari e cimiteri.
Tra le varie proposte che sono ieri emerse a Cernobbio per affrontare questa emergenza c’è stata quella di aumentare gli ingressi annuali di lavoratori stranieri portandoli a una cifra pari almeno a duecentocinquantamila, di svariati multipli superiore a quelle che tutte le maggioranze, di destra, di sinistra e ibride che si sono succedute negli ultimi decenni hanno mediamente autorizzato.
Anche questa circostanza – cambiando il colore dei governi non cambiano le politiche sull’immigrazione – conferma che su questo tema c’è tutt’altro che uno scontro di civiltà tra un fronte immigrazionista e un altro anti-immigrazionista, ma c’è un’unità nazionale del tirare a campare e poi a crepare, pur di non affrontare con responsabilità e razionalità il gigantesco problema, comune a tutte le democrazie, della compatibilità tra le trasformazioni demografiche della società e la sostenibilità politica delle loro conseguenze, che non comportano solo inevitabili effetti di meticciamento etnico, ma soprattutto una inevitabile redistribuzione di opportunità e di costi sociali.
L’insicurezza percepita di fronte allo straniero e al diverso – qualificato naturalmente come sospetto, pericoloso, aggressivo – è una sorta di eco di questa dinamica assolutamente reale, che non può essere elusa, né negata, ma non può diventare il vagheggiamento di muri e barriere apparentemente difensive, ma in realtà autolesionistiche o letteralmente suicidarie e redditizie solo per gli agenti del caos.
Eppure è chiaro che le società bianche non hanno alternative tra l’imbastardimento del – direbbe il Ministro cognato – ceppo nazionale e l’autodissoluzione per suicidio etno-nazionalista e che qualunque miracolismo supernatalista, qualunque doping riproduttivo non è neppure più un placebo per l’angoscia demografica, ma è una droga politica inebriante e mortale, una cocaina ideologica che gonfia i portafogli dei partiti sovranisti e svuota quelli dei loro elettori.
È la demografia, stupidi, bisognerebbe avere il coraggio di dire ai drogati della sostituzione etnica.