Sono circa le nove dell’11 settembre quando Salvador Allende, asserragliato nel palazzo presidenziale insieme alla sua guardia personale, viene informato che un aereo era pronto per condurlo fuori dal paese. La fuga, però, non era nei suoi piani. Lo avrebbe assicurato anche nel suo ultimo, immortale discorso, diffuso da radio Magallanes in mezzo a rumori di esplosioni e spari: «Io non rinuncerò», «pagherò con la mia vita la lealtà del popolo».

Alle 10.30, la giunta militare trasmette un ultimatum, esigendo la sua rinuncia entro le 11. Ma Allende ribadisce che avrebbe lasciato La Moneda solo da morto. C

osì, dopo aver organizzato l’evacuazione del palazzo, si dirige al Salón Independencia e lì si siede su un divano, si mette tra le ginocchia il fucile AK-47 che gli aveva donato Fidel Castro e, dopo aver gridato «Allende non si arrende!», si spara.

Questa, come è noto, è la versione ufficiale, basata principalmente sulla testimonianza di uno dei suoi medici, Patricio Guijón – il quale, tornato anche lui indietro per recuperare la maschera anti-gas, avrebbe visto Allende suicidarsi – e sull’autopsia realizzata la stessa notte del golpe dai medici José Luis Vásquez e Tomás Tobar.

Versione confermata poi nel 2011 dal Servizio medico legale, dopo due mesi di analisi condotte da un’équipe costituita da esperti cileni e stranieri, e ribadita infine dalla Corte suprema nel 2014.

Ma niente di tutto ciò è bastato a dissolvere i dubbi sugli ultimi momenti della vita di Allende.

È famosa la ricostruzione fornita da Gabriel García Márquez: il presidente che affronta mitra in mano il generale Javier Palacios incaricato dell’assalto a La Moneda, gli urla «Traidor!», lo ferisce a una mano e muore in uno scambio di raffiche (con i militari che infieriscono sul suo corpo).

In particolare, nel 2013, il medico forense Luis Ravanal e il giornalista Francisco Marín, nel libro Allende: Yo no me rendiré, avevano respinto la versione del suicidio basandosi su svariate testimonianze e su una nuova perizia medico-legale. Che il presidente fosse stato assassinato, lo avrebbe dimostrato – tra diverse incongruenze della versione ufficiale – la presenza, nella parte alta posteriore del cranio, dell’orifizio di uscita di un proiettile, di 2 o 3 centimetri di diametro, incompatibile con l’AK-47.

Solo in un secondo momento, probabilmente per dimostrare il suicidio, sarebbe stato effettuato il secondo sparo, alla gola, con un proiettile ben più devastante.

Sarebbe andata così: una pattuglia al comando di Palacios si introduce nella Moneda per la porta di Morandé e sale al secondo piano, dove si trovava il presidente con la sua scorta.

Celebri le foto che lo ritraggono con il casco e il mitra. In uno scontro a fuoco, Palacios viene ferito alla mano destra e soccorso dal tenente Armando Fernández Larios, mentre i suoi uomini avanzano sparando. Sotto i colpi cade un uomo in abiti civili e quando i militari si avvicinano scoprono che si tratta di Allende. Sarebbe stato il generale Palacios, a quel punto, a estrarre la sua pistola d’ordinanza e a sparare alla testa del presidente.

In seguito, il suo corpo viene trasportato nel Salón Independencia, dove ha luogo la messinscena del suicidio. Così almeno hanno sostenuto Dagoberto Palacios – a cui lo zio Javier avrebbe raccontato di aver sparato lui il colpo di grazia al presidente – e Julio Araya Toro, figlio di un amico fraterno dello stesso generale.

Considerando l’eccezionalità della morte di Allende, che su di essa siano fiorite le più diverse ricostruzioni non può granché sorprendere.

Ma che sia stato ucciso in combattimento o si sia suicidato, non fa comunque nessuna differenza: in entrambi i casi, Allende rifiuta di arrendersi e va incontro alla morte da eroe.

Se poi il mistero degli ultimi istanti della sua vita non sarà mai sciolto, nuova luce è stata invece gettata sulla giornata precedente il golpe.