“Landini? Licenzia come i padroni”

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L'ex ministro: 

“Usa le stesse giustificazioni degli imprenditori che non sanno innovare”

«Vedo che il segretario della Cgil Maurizio Landini ora spiega che non può permettersi il lusso di un addetto stampa, e che quindi lo deve licenziare per motivi economici. Che dire? É esattamente la giustificazione che usano tutti gli imprenditori (Landini direbbe «i padroni», ndr) che non sono capaci di fare innovazione».

Teresa Bellanova (una vita in Cgil, dal sindacato braccianti nella sua Puglia fino alla guida dei tessili; poi parlamentare Pd e Iv, e ministro in diversi governi, da Renzi a Draghi) è un fiume in piena. Il brusco licenziamento del portavoce storico del sindacato di Corso Italia è lo spunto per una dura critica alla Cgil landiniana, ma anche al Pd schleiniano, che va a rimorchio. Ad esempio sul Jobs Act: «Se Landini avesse voluto utilizzare gli strumenti di quella riforma, avrebbe potuto evitare un licenziamento così brusco».

In che senso, onorevole Bellanova?

«Proprio il tanto vituperato Jobs Act prevede la possibilità di trasferire il lavoratore che lo voglia da un settore in cui si deve ridurre il personale ad un altro, salvaguardandone il salario. Perché non lo ha fatto, nel caso di Massimo Gibelli?».

Ma Landini dice di voler abrogare per referendum il Jobs Act.

«É solo fumo, una chiacchiera venduta ai lavoratori per riempire il vuoto di progetto e di capacità di mobilitazione del mondo del lavoro. E poi il leader della Cgil trascura il piccolo particolare che quella riforma era una legge delega con decine di decreti attuativi. Perché non ci spiega cosa vuole abolire? Vuole abolire le norme che ampliano la cassa integrazione per le piccole imprese? Quelle che allargano le tutele della Naspi per gli ultra-cinquantenni? Il divieto di dimissioni in bianco? I congedi parentali? Cosa?».

La sento molto appassionata sul tema. Eppure anche il suo ex partito, il Pd, segue la Cgil su questo tema.

«Da sottosegretario al Lavoro ho passato notti e giorni in Parlamento a discutere ogni punto del Jobs Act. E non ricordo un solo ministro, sottosegretario, capogruppo d’aula o di commissione del Pd contrario. E oggi gli stessi ministri Pd che lo appoggiavano e mi dicevano vai Teresa dicono che va abolito? Con che autorità morale? Non è solo un errore, è slealtà e scarso senso di responsabilità politica».

Lei ha passato una vita in Cgil, dalla gavetta ai vertici. Cosa è cambiato?

«Guardi, io sono ancora iscritta alla Cgil. Dal 2018 non ho più nemmeno ricevuto la tessera, per non parlare di una convocazione per riunioni, assemblee, discussioni. Mi pare si stia perdendo il rapporto con il mondo reale, a cominciare dai giovani che infatti non riconoscono più un sindacato sempre più burocratico come interlocutore. Ai miei tempi, dalle vertenze dei braccianti a quelle dei tessili, non esistevano weekend o orari: si facevano le assemblee la domenica o alle 5 del mattino per il primo turno. La verità è che il sindacato vive una crisi profonda di rappresentanza analoga a quella dei partiti. E Landini organizza manifestazioni e insegue la politica per mancanza di progetto e di capacità di proposte verso il mondo del lavoro e il suo futuro».

Ma come, il capo della Cgil ha anche sposato la battaglia per il salario minimo di Conte e Schlein: non è una strada verso il futuro?

«No, è il contrario: così il sindacato abdica al proprio ruolo, vende fumo promettendo migliori condizioni per i lavoratori, ma al tempo stesso crea per loro un rischio enorme».

Quale?

«Nel 2018, quando il governo Renzi aprì la discussione sul salario minimo, la Cgil disse no. Non voglio pensare che lo fece perché era Renzi a proporlo, ma per saggezza: quando si parla di 9 euro lordi si parla di 6 euro reali. La maggior parte dei contratti sindacali sono già sopra quella cifra. Così non si risolve il problema dei salari poveri, ma si rischia di mettere in discussione i salari più alti, spingendo le aziende a uscire dalla contrattazione collettiva».

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