Colloquio con il direttore del Nato Defense College:
“Spiace questo stallo, perché il riconoscimento di fatto sarebbe potuto essere un passo concreto e soprattutto un gesto di cultura politica. Nessuno sta dicendo che va dimenticata la propria cultura, ma in seguito occorre inserirsi in un quadro d’insieme. Dobbiamo usare il pugno duro, affinché si comprenda che serve trovare una soluzione? Mi sembra una sconfitta, non certo per chi lo usa, ma per chi lo subisce”
Più i Paesi tardano ad investire in Europa, più avranno poi difficoltà a dettare in modo adeguato un’agenda. Parte da questo assunto Alessandro Politi per rileggere le parole del numero uno della diplomazia europea Joseph Borrell sullo stallo in corso tra Kosovo e Serbia, dopo che il compromesso Ue è stato accettato solo dalla Serbia. Il direttore della Nato Defense College Foundation spiega a Formiche.net che non solo la tensione resta altissima nel Kosovo settentrionale, ma che si complica anche l’intero disegno sul costone balcanico.
Chi ci guadagna dallo stallo tra Kosovo e Serbia?
Non so dire esattamente chi ci guadagna, la cosa che mi stupisce di più è lo stallo su questioni che in realtà potrebbero avere un loro naturale corso, ma ancora non lo hanno. Posso capire che ognuno dei due abbia diverse sensibilità e interessi, ma queste due elites pensano ancora di avere tempo per giocare fino all’ultimo minuto con un bluff? Mi sembra che le due capitali, forse una più delle due, non si rendano conto che la questione ucraina comunque determina una serie di percezioni a Bruxelles e nelle varie capitali europee.
Si riferisce al percorso di ingresso in Ue?
Penso che, con tutti i difetti che possa aver Borrell e tutta la macchina europea, oggi l’Ue ha preso una direzione chiara, mentre le due parti con il passare del tempo rischiano di rimetterci. La sostanza è che se non si avanza su uno dei due binari, in seguito il treno non si muove. Io capisco benissimo che, per una serie di motivi, qualcuno non sia interessato alla cattiva percezione che sta dando all’esterno. Prima o poi le elezioni arriveranno, accanto ai problemi concreti su come sostenere la viabilità dell’economia e della società kosovara. Liberalizzare i visti, ad esempio, significa far guadagnar tempo, ma nel frattempo la gente migra per lavorare. Tutto ciò è anche nell’interesse europeo.
Un peggioramento reso rischioso anche dal parallelo quadro in Bosnia?
La decisione di formare l’Associazione delle municipalità serbe in un contesto di “pericolo nazionale” va raffrontata agli sviluppi, molto più problematici, rispetto ai dodici comuni bosniaci, ciò chiaramente fa parte tanto del calcolo concreto quanto della narrativa. Qualcuno potrebbe dire: “vedete che succede?”. L’Unione europea prima o poi dovrà capire che la Bosnia non è un luogo dove esercitare semplicemente un freno, dal momento che non mancano le interferenze russe. Il problema sono le dinamiche delle due capitali e dei due Governi e soprattutto il peso delle loro fragilità. Spiace questo stallo, perché il riconoscimento di fatto sarebbe potuto essere un passo concreto e soprattutto un gesto di cultura politica.
Quali le motivazioni?
Se una minoranza non è inclusa nel progetto nazionale, significa che allora l’unica nazione possibile sia quella mono-nazionale. È possibile in teoria, ma è quasi sempre una grossa perdita per chi fa questo tipo di progetti, dal momento che si perde un’altra apertura sul mondo. Si tratta delle medesime dinamiche che accadono, per esempio, in Belgio, dove una minoranza decide di non parlare più l’altra lingua nazionale che è anche veicolata a livello globale. Questo gesto equivale a chiudersi al mondo. Lo stesso vale per le lingue slave. Nessuno sta dicendo che va dimenticata la propria cultura, ma in seguito occorre inserirsi in un quadro d’insieme.
Borrell ha detto: “Non possiamo sederci e aspettare la prossima crisi”, deplorando la mancanza di impegno da parte di entrambi i paesi nel normalizzare le loro relazioni. Stizza o fisiologica presa d’atto?
Ciò che dice Borrell, a mio avviso, equivale a un invito a non giocare a poker. E’ chiaro che l’Europa non è impotente, pur avendo le sue divisioni, le sue linee e le sue perdite di direzione. Dobbiamo usare il pugno duro, affinché si comprenda che serve trovare una soluzione? Mi sembra una sconfitta, non certo per chi lo usa, ma per chi lo subisce. Però il gioco pare essere quello.
Questa situazione mette Kosovo e Serbia in una posizione differente rispetto ad altri del versante orientale europeo che si stanno caratterizzando per politiche tra virgolette più mature come Polonia, Romania e Albania? C’è il rischio che Kosovo e Serbia perdano non solo il treno di oggi ma i posti a sedere per l’alleanza e gli equilibri di domani?
L’elite polacca non dice che sta pagando un prezzo altissimo per questa guerra di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Sarà dura. Alla fine Varsavia sta puntando molto sulla vecchia tentazione di avere una leadership militare, ma questo non basta. La Romania fa quello che può, come la Grecia che però si muove in un’ottica di competizione con la Turchia. Anche su altri versanti la Grecia ha più molto più equilibrio del passato e si sta liberando vecchi demoni politici interni e contrapposizioni familiari che ingessano la politica. Atene si sta muovendo molto più di altri Paesi. Ma è altrettanto chiaro che più i Paesi tardano ad investire in Europa, più avranno poi difficoltà a dettare in modo adeguato un’agenda.
Per quale ragione?
Perché un conto è rispettare i criteri e finalmente essere ammessi, un altro conto è mantenersi equidistanti ma non riuscire a restare nella serie A europea.