di Anna Stefi
Degli elefanti occupano, con noi, le aule scolastiche.
Il primo elefante è il più ingombrante: il cellulare. Il cellulare è un mondo che contiene altri mondi: il linguaggio abbreviato; i selfie; le emoticon, per citarne soltanto tre. Il cellulare ha a che fare con l’immediatezza, con il visivo, con linguaggi – e ritmi – che sono altri rispetto a quelli che dominano a scuola. Ritengo il tempo “altro” della scuola – la lentezza, la fatica, la solitudine, la riflessione –, un tempo di grande valore, da proteggere.
L’interrogativo che mi pongo tuttavia negli ultimi anni è: cosa significa proteggerlo? Significa custodirlo o guadagnarlo? Significa preservarlo come condizione di lavoro, o immaginare che possa essere una conquista lungo la strada?
Secondo elefante: gli abiti. O l’assenza di abiti. E, come corollario, i capelli, gli specchi, il trucco. L’immagine che sempre sono, che li accompagna, che controllano, plasmano, verificano. Il tempo dell’adolescenza è un tempo di costruzione dell’identità, un tempo in cui l’immaginario è centrale: la necessità di identificarsi, iscriversi all’interno di codici, trovare delle insegne. Gli adolescenti cercano il gruppo con cui fare ogni cosa e l’amicizia come simbiosi: l’altro identico, inseparabile.
È un processo lento quello del rapporto con l’alterità, con la differenza. Si sviluppa negli anni, durante i quali si riscrivono le alleanze, il nemico diventa amico, le maschere stanno strette e gradualmente si mette in risalto la propria individualità, si sopporta quella dell’altro. Soggettivarsi, lasciare che emerga la propria particolarità rispetto al gruppo che li ha protetti, è l’esito di un movimento complicato, ora come allora.
Credo che due elementi concorrano, oggi, a renderlo ancora più difficile.
Il primo è che l’immagine che sempre sono, l’immagine che si delinea nelle aule e ha nei social il suo naturale prolungamento, è un oggetto continuo. L’immagine che sempre sono non conosce il pomeriggio, la domenica, le vacanze. E, allo stesso modo, l’immagine che gli altri sono. Credo che, per capire cosa questo significhi, potremmo provare a ricordare il gioco di sguardi che si creava nei corridoi durante gli intervalli: alleanze, inimicizie, invidia, amore, odio. Cosa sono per l’altro? Chi vale per lei? E lui chi guarda? Non c’è tregua, rispetto a questi interrogativi: Tik Tok, Instagram, i filtri, le pose, i trucchi e i like.
Le mie pazienti parlano delle foto che non riescono a postare, del tempo che impiegano: caricare e cancellare; raccontano la sofferenza che l’esposizione porta con sé o il dolore per il mancato coraggio. Anche i legami non conoscono pausa: controllano la posizione dei loro amici in ogni minuto, si sentono su Whatsapp anche nel cuore della notte. Non si deve “sopportare” l’assenza perché si può non fare esperienza dell’assenza.
Il secondo è che il discorso sociale ripropone questi stessi codici, un identico modello: la costruzione del personaggio come via verso il successo; il riconoscimento come unico dio sul cui altare sacrificare ogni bene; l’amore come simbiosi; l’eccesso; la dismisura; la connessione perenne.
Terzo elefante: le unghie. Le loro unghie e il nostro sgomento. Anche le unghie sono un abito, un’immagine, una forma che si danno. Ma, al tempo stesso, le unghie sono uno strano modo di impugnare la penna, di far scorrere le mani sulla tastiera. O, più banalmente, le unghie come elementi disturbanti. Per me sono le unghie, per qualcuno potranno essere altro: i tatuaggi? Possiamo considerare questo terzo punto, questo elefante-unghie, come qualcosa che portano in classe e ci fa problema, che capiamo poco, che esteticamente ci irrita. Così invasivo e così impensato, almeno ai nostri occhi.
Quarto elefante: la musica. I testi delle canzoni che ascoltano. I testi della musica trap. La violenza di quei testi e, come corollario, le cuffie, le gigantesche cuffie con cui si coprono le orecchie e in cui affondano. Pensano? Si riparano? Si immergono nell’esperienza dell’ascolto? La musica che chiedono di poter ascoltare durante i temi. La musica che, nei loro discorsi, li tiene in vita e la musica che, ai miei occhi, a volte, li tiene altrove.
E infine il quinto elefante: l’ansia. Divorante e totale. L’ansia che è un nome dato a mille cose differenti, l’ansia che prende il corpo, le ferite, i tagli, gli attacchi di panico, le assenze. La paura.
Perché questo elenco provvisorio, del tutto incompleto e soggettivo? Credo che ogni tempo storico abbia i suoi ospiti, accanto a Dante, Freud e i logaritmi. Credo che alcuni ospiti c’erano allora come ora, che nuovi elementi si siano sostituiti a elementi antichi conservando una stessa matrice, o intenzione, o un senso in qualche modo sovrapponibile.
Non credo sia davvero importante capire quanto le cose siano cambiate, né chiedersi cosa potrebbe essere meglio, ma provare a porci due grandi interrogativi: il primo è cosa farcene di quel che c’è; il secondo è cosa ci sembra imprescindibile che la scuola veicoli oggi. Cosa abbiamo in mente quando chiediamo alla scuola di farsi carico del discorso sociale? O, detto più semplicemente, c’è qualcosa che possiamo isolare come essenziale per quell’“educazione all’affettività” che invochiamo a ogni fatto di cronaca che vede coinvolti adolescenti?
Partirei dall’ultima parola dell’elenco suggerito. Paura. È solo la loro o anche la nostra?
Questo mi pare che suggerisca una prima indicazione: vedere questi elementi, questi elefanti, vederli davvero, vederli con tutta la paura – e la fatica – che implicano.
C’è stato un tempo in cui usavo la scatola di cartone per raccogliere i cellulari a inizio lezione, perché nessuno, io compresa, cadesse in tentazione. Mi sembrava di non imporre una legge dall’alto, ma di riempire una regola di senso: era importante che imparassimo, in quell’aula, un tempo differente. Valeva per tutti, ci regalava la possibilità di qualcosa di diverso.
Ho cominciato nel tempo a pensare che il mio scopo prioritario era proteggermi. Basaglia ci insegna che se non usiamo misure di contenimento abbiamo una responsabilità in più. E dunque maggior lavoro. La scuola senza cellulare, la scuola senza social network, la scuola senza connessione perenne resta, per loro, una parentesi: altre regole, temi che non li riguardano. Non si gioca lì – per loro – la partita della vita.
Suona la campana e ritorno dove voglio essere, rimetto mano a quel mondo, quello che mi fa piangere e gioire.
Con la scatola di cartone eludevo qualcosa che non conosco, che non padroneggio, qualcosa che però ha a che fare con pulsioni e aggressività, quelle pulsioni e quella aggressività che sono il corpo sessuale che iniziano a essere. E l’immaginario che li governa.
La scuola in un tempo storico differente ha lasciato fuori la sessualità, i corpi, ha messo a tacere il loro ingovernabile. Lo ha fatto avvalendosi della Legge: “non si può”. Ma, lo ripetiamo da sempre, il tempo della Legge è concluso. Molte sono state le riflessioni legate a questo passaggio culturale – una fra tutte la necessità di essere, come insegnanti, autorevoli e non autoritari. E tuttavia credo non si sia abbastanza pensato cosa implichi fino in fondo il non poter più fare appello alla legge del no: “non si viene a scuola con un abbigliamento inopportuno”; “non si usa il cellulare”; “non ci si alza durante la lezione”.
Posso dirle ancora queste frasi? Posso. Sono meno efficaci. Non includono la trasformazione storica che stiamo vivendo.
Che alternativa ho, dunque?
Credo che parlare di relazione, e di corpi, come elementi essenziali e come nuovi linguaggi all’interno della scuola, significa prendere sul serio queste relazioni e questi corpi, istituire cioè un ponte che chiede a noi insegnanti il grande sforzo, e la grande paura, di rapportarci all’ignoto. L’ignoto chiede uno sconfinamento, un’invenzione. Non essere protetti dalla cattedra e dai corpi disciplinati, da un sapere già conosciuto. Mi pare inaggirabile, del resto, il rapporto con l’ignoto in una scuola fatta, sempre più, di figli di immigrati di seconda e terza generazione.
È possibile, mi sono chiesta, portare qualcosa del loro mondo in questo mondo? Posso immaginare di mostrare che non sono poi davvero due mondi? Posso farmi carico dei nuovi linguaggi che sono il loro dire? O, detto meglio, posso svelare qualcosa di questo dire?
Mi è chiesto uno sforzo per rendere contemporaneo quello che insegno. Leggere quei testi per me osceni di musica trap, provare a interrogarli. Vedere le loro unghie, i loro abiti, i loro drammi, i loro tatuaggi e la loro ansia. Non per parlare di ansia – non è il nostro mestiere – né per aiutarli a non tremare proponendo un sapere semplificato e già digerito.
Anzi!
Non si tratta di ammiccare al telefono scrivendo loro su WhatsApp, né proporre la filosofia attraverso il quiz con i cellulari; non si tratta di non problematizzare un abbigliamento che non tiene conto che la vita è fatta di contesti, né di essere amici, complici, amorosi.
Credo che lo sforzo sia precisamente in direzione contraria: abitare, socraticamente, una posizione enigmatica, che introduca uno spaesamento, severa ma non ostile, che non sia né di rispecchiamento né di misconoscimento. Occupare una posizione in cui non è di noi che si tratta, né di loro, ma di una verità sempre da ricercare: il mistero che siamo a noi stessi.
Forse, parlare di nuovi linguaggi ci porta allora a dover fare i conti con la scommessa di mostrare loro come ci sia, sotto, qualcosa di molto antico. O trovarlo, questo antico. Sporcarsi le mani con l’immaginario, domandandosi quali quesiti pone loro il problema della libertà in Mindcraft; se la lotta di Antigone contro Creonte non potrebbe essere la battaglia per avere una voce contro un insegnante dispotico che non li lascia essere. Diotima cosa suggerisce sul monitorare la posizione dell’amica, o sul controllare gli accessi Telegram del fidanzato? Gli eroi dell’epica e della letteratura che cosa hanno in comune con i loro eroi-influencer? Il tema dell’immagine che sono riguarda la rappresentazione, e questo porta con sé il problema della realtà e del rapporto che si intrattiene con questa realtà.
Svelare il mediato che sta sotto l’immediato. Aiutarli a vedere che c’è molto di più di quel che vedono e che forse non sono esattamente dove credono di essere e chi credono di essere.
Essere seri, a scuola, significa prendere sul serio le cose. Tante cose, più cose di quelle che siamo stati abituati a considerare materia di studio.
Forse, tutto questo, possiamo cominciare a farlo non imponendo un linguaggio alto che si sostituisca al loro, delegittimandolo, ma partendo da quel che c’è per ampliarlo. Aiutarli a considerare da dove parlano, suggerire nuovi interrogativi capaci di portare uno sguardo diverso su dinamiche agite e non pensate. Introdurre la riflessione, la concentrazione, il tempo lento, nel cuore del loro immediato. Mostrare loro che lo sforzo di un messaggio più chiaro e complesso – lo sforzo di prendersi del tempo, di articolare un sentire cercando delle parole, lo sforzo di dire, di tradurre un vissuto perché l’altro possa vederlo – è profondamente intrecciato al desiderio che hanno di ritagliarsi un posto nel mondo. Articolare meglio per spiegarsi. Ci vuole tempo. Vedere le ambiguità.
Fare un salto oltre la frammentarietà comunicativa del dialogo a due, mostrare che al di fuori dei codici del gruppo, farsi capire è un’arte complessa. Farsi capire aiuta a capirsi, allarga il nostro sguardo, consente di incontrare altro e di innamorarsi dell’altro e d’altro. E la scuola ha strumenti da offrire rispetto a questo, strumenti che consentono di non sentire il mondo che crolla quando il messaggio dall’altra parte si conclude con un punto che pare un addio, o senza una faccina circondata da cuori che ci assicura che l’altro ci ama.
Usare le emoticon, non essere usati; usare Tik Tok, non esserne divorati.
Complessità e differimento sono competenze – per usare un linguaggio tanto amato – essenziali per separarsi dall’altro, reggere il tempo dell’assenza, uscire dall’immaginario. Separarsi dall’altro, reggere il tempo dell’assenza, uscire dall’immaginario sono un antidoto alla dilagante aggressività, all’assenza diffusa di desiderio, alla chiusura solitaria nelle proprie stanze (per citare solo tre esempi segnalati con crescente preoccupazione da psicoanalisti e pedagogisti).
In assenza di un “devi perché devi” dal sapore kantiano, in assenza di un Super-io individuale e collettivo perché fatica e frustrazione sono concetti assenti dal discorso sociale, come portarli a quel “ne vale la pena” che tutti noi sempre sentiamo quando occupiamo la posizione di insegnanti?
Differimento e complessità non sono l’obolo che sacrifichiamo sull’altare del dovere, lo scotto da pagare per essere un giorno premiati (ma quando mai?), ma la via per potere – oggi, ora, nel presente vivo della adolescenza – sopportare l’altro che non c’è senza pensare che ci abbia abbandonato; inventarsi un buon modo di raccontarsi sui propri profili; reggere la frustrazione del non saper dire accorgendosi che non tutto può essere detto; accostarsi al Discorso sulla servitù volontaria e scoprire, addentrandosi in un linguaggio cinquecentesco, che in effetti la libertà fa paura. Se qualcuno descrive qualcosa che sentiamo, se ci aiuta a nominarlo, ci sentiamo meno soli. E questo, più che con il successo e il futuro, ha a che fare con la felicità.