L’emergenza non è nei numeri (avvenire.it)

di Maurizio Ambrosini

Misure già viste sono inefficaci

Il governo italiano si sta comportando come l’apprendista stregone del film di Walt Disney. Dopo aver suscitato l’idea che quella dei profughi dall’Africa in cerca di asilo sia un’emergenza nazionale, e avendo smantellato il sistema di accoglienza, ora si trova in chiaro affanno nel dimostrare di saper mettere sotto controllo la situazione.

Ci prova riesumando misure già sperimentate senza successo e introducendone altre che, se attuate, comporteranno serie violazioni dei diritti umani, a partire dal diritto d’asilo solennemente sancito dalla nostra Costituzione all’articolo 10. Cominciamo dai numeri. Il totale degli sbarchi sfiora quota 130.000. Molti di più degli scorsi anni, a riprova che non era colpa delle Ong o dei governi precedenti se i profughi prendevano la via del mare, ma di fattori ben più profondi e tragici. Resta però che tra il 2015 e il 2017 gli sbarchi avevano raggiunto cifre simili, il Paese non è crollato, e ce ne siamo quasi dimenticati.

Nel 2022 abbiamo accolto in pochi mesi circa 170.000 rifugiati ucraini, di cui 140-150.000 sono ancora in Italia, e nessuno ne parla, giustamente, come di una catastrofe. Nei primi mesi del 2023 nell’area Schengen sono state presentate circa 500.000 domande di asilo, di cui forse il 20% in Italia, ma si continua a ripetere che il nostro Paese è una specie di campo profughi d’Europa. Il punto è che l’accoglienza, o il suo contrario, la percezione di allarme e di ripulsa, cominciano dallo sguardo: uno sguardo selettivo, che rigetta alcuni e ammette altri.

L’emergenza non concerne il numero degli arrivi, ma il modo di gestirli. Veniamo quindi alle misure governative. Alcune riguardano il (presunto) rafforzamento dei rimpatri degli immigrati colpiti da espulsione e trattenuti per poterli identificare e rimandare indietro.

Poco di nuovo su questo versante: il prolungamento a 18 mesi è un cavallo di ritorno, ma già alla prima prova aveva dato pochi risultati. Il tasso di espulsione di quanti sono trattenuti in quelle strutture disumane che sono i CPR, privi dei servizi di cui dispongono o dovrebbero disporre le carceri, non è mai andato oltre il 50%. È vero che i posti nei CPR sono pochi, meno di 2.000, ma i rimpatri falliscono (e riguardano in buona parte un solo Paese, la Tunisia) per una somma di motivi, dai costi alla mancanza di accordi con i Paesi di origine.

Soprattutto, la misura c’entra poco con l’obiettivo di contenere gli arrivi: si vuole probabilmente esercitare un effetto di deterrenza, ma si tratta di una scommessa contro la storia. Ritorna poi il capitolo sempreverde del contrasto delle partenze, su cui insiste la premier italiana trovando la sponda di Ursula von der Leyen. Qui colpisce il cinismo: sbloccare i fondi per la Tunisia, rendere operativi gli accordi con l’autocrate Saïed, basati su un protocollo secretato, addirittura attribuire alla Tunisia la qualifica di Paese sicuro, pur di ridurre il numero degli arrivi.

Il tutto senza nessun riferimento alla tutela dei diritti umani e alla sorte dei profughi rimandati o costretti a rimanere in Tunisia, compresi quelli deportati nel deserto ai confini con la Libia. Aleggia infine il ventilato ricorso alla Marina militare per pattugliare il mare.

I casi qui sono due: o si tratta di una forma di blocco navale, o quanto meno di una misura in cui si prevede di rimandare indietro i precari natanti dei profughi esponendoli a rischi esiziali, oppure siamo al cospetto di una riedizione dell’operazione “Sophia”: una missione navale che aveva obiettivi di sorveglianza dello spazio marittimo e di intercettazione delle barche, ma che non mancava di trarre in salvo le persone in pericolo.

Quell’operazione venne abrogata dal primo governo Conte, su spinta determinante del vice-premier Salvini. Ora, a quanto pare, il governo guidato da Giorgia Meloni ci ha ripensato, pur di comunicare il messaggio di saper governare i flussi. Il piano Mattei è stato rimandato a un livello addirittura mondiale, delle Nazioni Unite.

I corridoi umanitari ricevono sporadici e inconsistenti accenni. Di altre misure di accoglienza, come i reinsediamenti e le sponsorizzazioni private, non si parla proprio. Come se costruito il dramma, ora per ragioni propagandistiche se ne debba ridurre la portata. Ma sarebbe a prezzo dei diritti umani e delle vite ridotte a scarto.

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