Il crepuscolo dei sindacati incombe sull’Europa.
I dati non lasciano spazio ai dubbi. Nell’area Ocse, solo il 15,8% dei lavoratori è iscritto a una sigla sindacale. E tra i diversi Paesi le differenze sono macroscopiche. Si va dal 92% dei lavoratori islandesi iscritti al sindacato e si precipita al 6% di quelli estoni. In mezzo, i numeri fotografano il flop dei sindacati nelle maggiori economie Ue.
In Francia, nel 2016 (ultimo anno in cui sono stati resi disponibili i dati) era iscritto al sindacato solo il 10,8% dei lavoratori. In Germania, invece, se all’inizio del Millennio poco meno di un quarto della forza lavoro tedesca (24,6%) aveva in tasca una tessera, questa percentuale si è ridotta vent’anni dopo al 16,3%. E l’Italia? A tutta prima, i dati sembrerebbero addirittura in controtendenza rispetto al trend generale.
Stando ai numeri Ocse, gli italiani “sindacalizzati” sarebbero il 32,5% dell’intera platea dei lavoratori. Considerando che, nel 2000, erano il 34,8%, si potrebbe parlare di un calo quasi fisiologico e di un’istituzione che tiene, nonostante tutto e tutti. In realtà, le cose stanno in maniera ben diversa.
Già, perché se si porta più indietro la lancetta dell’orologio e si assume un arco temporale più lungo per l’analisi dei dati, si scopre che il sindacato italiano, un tempo fenomeno di massa al pari dei partiti, ha perduto irrimediabilmente terreno. Nel 1985, non proprio una vita fa, il 42,5% dei lavoratori aveva la tessera del sindacato. Numeri che, confrontati con quelli di oggi, sembrano maestosi. E che vanno analizzati alla luce di quello che sta avvenendo nell’economia.
Con la progressiva deindustrializzazione del Paese, avviata negli anni ’90 con le grandi delocalizzazioni e lo svuotamento della produzione in vari bacini industriali da Nord a Sud, è venuta meno la base storica del sindacato. Ossia quella legata al lavoro fordista, quello della fabbrica. Con l’avvento delle nuove professioni, l’incidenza del sindacato non è parsa altrettanto forte. E, anzi, tra precariato e nuovi lavori, spesso e volentieri sfuggiti alla contrattazione, si è acuita la sfiducia nei confronti dell’istituzione.
Che è diventata aperta avversione, in determinati settori, con la firma di contratti capestro. Quelli, per intendersi, che hanno istituzionalizzato una paga oraria di pochi euro creando le basi del cosiddetto lavoro povero.
La sfiducia è ancora più forte tra i giovani. Nel corso del decennio scorso, si è toccato il fondo. Nel 2017, un’indagine Acli svelò che solo un giovane su dieci (11%) si fidava ancora dei sindacati come strumento di lotta e tutela dei diritti del lavoratore. Una percentuale che sprofondava fino al 7% tra gli expat non laureati.
La sfiducia è ancora più forte tra i giovani. Nel corso del decennio scorso, si è toccato il fondo. Nel 2017, un’indagine Acli svelò che solo un giovane su dieci (11%) si fidava ancora dei sindacati come strumento di lotta e tutela dei diritti del lavoratore. Una percentuale che sprofondava fino al 7% tra gli expat non laureati.
Ma il dato più drammatico era ancora un altro: il 40% del campione intervistato riteneva che, considerato il mercato e il mondo del lavoro contemporaneo, fosse del tutto inutile affidarsi a chicchesia per difendere i propri diritti. Insomma, il sindacato vissuto come uno strumento obsoleto e incapace di assolvere al proprio compito istituzionale. Il dato di fondo di quell’indagine era chiarissimo: come per la politica e i partiti, anche i sindacati sono stati percepiti, nel corso del tempo, sempre più slegati alla loro funzione, lontani dalle masse e vicini, in alcuni casi anche troppo, a quelli che avrebbero dovuto essere, se non gli avversari di classe, quantomeno gli interlocutori con cui confrontarsi.
A complicare il tutto, poi, sono state le decine di inchieste giornalistiche che hanno svelato un mondo che, in alcuni casi, è parso troppo poco vicino agli interessi delle classi lavoratrici, fatto di relazioni e obiettivi talora in aperto conflitto. Ma, a colpire i lavoratori (e soprattutto i giovani) è stata quella che è parsa una mancanza di risultati. Decenni di deindustrializzazione non hanno trovato praticamente ostacoli.
Però le iscrizioni, rispetto alla Francia e alla Germania, tengono ancora. Ciò è dovuto, anche, al fatto che in Italia sia ancora forte la percentuale di pubblico impiego sindacalizzata. Nel settore privato, infatti, le iscrizioni sono crollate. Ed è accaduto specialmente lì dove il lavoro, che pure c’era, è lentamente ma inesorabilmente, scomparso. Nel 2017, secondo Demoskopika, i sindacati persero poco più di 447mila iscritti.
Di questi, quasi il 70 per cento (293mila) erano lavoratori del Sud. Ma ci sono anche altri fattori che giocano a sostenere le iscrizioni che restano. Il fatto, da non sottovalutare, che i sindacati offrono dei servizi, su tutti quelli dei Caf, che spingono più di un lavoratore a tesserarsi pur di usufruirne. Sono aumentate, inoltre, le iscrizioni di stranieri e migranti in ragione della loro sempre maggiore presenza nella forza lavoro di numerosi settori economici. Dall’agricoltura fino all’industria.