di Damiano Aliprandi
Le nuove misure del governo sollevano interrogativi sulla conformità alle norme Ue e alle pronunce dalla Corte di giustizia,
così come sull’efficacia per assicurare rimpatri effettivi
Il Consiglio dei ministri ha deciso di prolungare il trattenimento massimo nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr). Si passa da tre mesi, ai quali in casi particolari potevano essere aggiunti 45 giorni, a diciotto. Con questa modifica, si ritorna alla legge Maroni del 2011, quando questo limite massimo di detenzione per i migranti, che non hanno commesso alcun reato come sottolineato più volte, fu esteso. Ci si adagia sul fatto che questo limite massimo è consentito dalla Direttiva europea sui rimpatri del 2008. Ma è esattamente così?
La modifica del 2013 e la direttiva europea
Come già riportato ieri, nel 2013 l’allora governo aveva modificato la legge del 2011, riducendo vertiginosamente il limite del trattenimento massimo, proprio – così si legge nella Gazzetta ufficiale – “per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Ma perché questa modifica? La direttiva europea, precisamente l’articolo 15, consente allo Stato di trattenere il migrante in un Cpr per un periodo massimo di sei mesi, prorogabile in casi particolari fino a un massimo di 18 mesi.
Come recita la direttiva stessa, questo periodo può essere prolungato solo in presenza di condotte gravemente ostruzionistiche da parte del migrante e assicurando comunque il riesame periodico della persistente necessità della misura coercitiva rispetto allo scopo di eseguire l’allontanamento, ed evitando di regola che lo straniero venga collocato in un istituto penitenziario.
Quindi il periodo massimo è di sei mesi. I casi particolari dove si consente di arrivare a un massimo di 18 mesi si possono trarre dalle lettere a e b, ed emerge che il trattenimento oltre i sei mesi è consentito esclusivamente in presenza di estreme condotte.
I diritti umani e le normative internazionali
Questo ultimo aspetto, però deve essere inquadrato all’interno degli standard internazionali sui diritti umani. Secondo il diritto internazionale, la detenzione dei “migranti irregolari” al fine di espellerli dal territorio italiano può essere consentita solo se le autorità possono dimostrare che esiste una prospettiva ragionevole per il rimpatrio delle persone in questione e che le procedure per il rimpatrio vengano eseguite con la dovuta diligenza.
Il diritto internazionale richiede una prospettiva ragionevole di rimpatrio o espulsione affinché la detenzione sia legale. Basterebbe leggere la linea guida numero 7 del Consiglio d’Europa sui rimpatri forzati: “La detenzione in attesa del rimpatrio sarà giustificata solo per il periodo in cui le procedure relative siano in corso. Se queste procedure non sono eseguite con la diligenza dovuta, la detenzione cesserà di essere consentita”.
La pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione Europea
Per comprendere meglio questa questione, possiamo fare riferimento alla pronuncia del 28 aprile 2011 della Corte di giustizia dell’Unione Europea nel caso di Hassen El Dridi, alias Soufi Karim, che verteva sull’interpretazione della direttiva europea.
Parliamo di una delle sentenze che verranno prese in considerazione dal governo italiano nel 2013, proprio con la legge che ha limitato tempi di intrattenimento presso i Cpr. Da precisare che la pronuncia verteva sulla questione penale, ovvero sull’accertata incompatibilità con gli articoli della direttiva rimpatri, che prevedeva l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo in ragione dell’irregolarità del suo soggiorno. Di particolare interesse, per la questione che a noi interessa, è l’ipotesi in cui l’esecuzione immediata dell’allontanamento non sia possibile.
L’articolo 15 della direttiva – come detto – consente allo Stato di trattenere lo straniero in un Cpr per un periodo massimo di sei mesi, prorogabile in casi particolari sino a complessivi 18 mesi, assicurando comunque il riesame periodico della persistente necessità della misura coercitiva rispetto allo scopo di eseguire l’allontanamento, ed evitando di regola che lo straniero venga collocato in un istituto penitenziario.
La Corte di giustizia europea, a tal proposito, sottolinea che il ricorso alla misura del trattenimento – ossia alla “misura più restrittiva della libertà che la direttiva consente nell’ambito di una procedura di allontanamento coattivo” – è regolamentato in maniera precisa e stringente dalla direttiva, “segnatamente allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi”, rilevando più in particolare come la fissazione di un termine di durata massima inderogabile del trattenimento abbia “lo scopo di limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo”, come già ritenuto dalla Corte di giustizia nel precedente caso Kadzoev del 2009 e conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il trattenimento dello straniero durante la procedura amministrativa di espulsione deve avere durata quanto più breve possibile, e non deve mai protrarsi oltre il tempo strettamente necessario per raggiungere lo scopo dell’allontanamento. Si aggiunge anche un’altra questione. La direttiva europea è anche ben chiara sulla modalità di trattenimento.
Il Cpr dovrebbe essere l’ultima spiaggia. Prevede che non si debba fare ricorso alla detenzione “se nel caso specifico possono essere applicate in modo efficace misure sufficienti ma meno coercitive della detenzione”. La direttiva europea è chiara quindi anche sulla modalità di trattenimento. Dovrebbe essere l’ultima risorsa e non dovrebbe essere utilizzata se ci sono misure meno coercitive efficaci disponibili per il caso specifico. La direttiva presenta la detenzione amministrativa presso i Cpr come una misura eccezionale e residuale.
La storia delle modifiche nella durata massima del trattenimento
Eppure tutto questo non interessa. Basterebbe cristallizzare come, nel corso degli anni, il legislatore è intervenuto più volte sui termini massimi di trattenimento degli stranieri nei Centri più volte rinominati: Legge Turco-Napolitano (legge 6 marzo 1998, n. 40): 30 giorni; Legge Bossi-Fini (legge 30 luglio 2002, n. 189): 60 giorni; – Il “Pacchetto sicurezza” 2008 (decreto legge 23 maggio 2008 n.92): 180 giorni; Decreto legge del 23 giugno 2011 n. 89: 18 mesi; Legge30 ottobre 2014, n. 161: 90 giorni; Legge Salvini. Bonafede 2018: 180 giorni. Ora, con il governo Meloni, si ritorna ai 18 mesi di trattenimento massimo.
Il Garante Nazionale Mauro Palma, nel 2018, ha espresso un parere basato sui dati e non su visioni ideologiche.
L’estensione proposta nuovamente della durata massima del trattenimento non appare trovare giustificazione in un’effettiva esigenza né sembra idonea al raggiungimento dello scopo che si prefigge. Infatti, l’analisi dei rapporti percentuali persone rimpatriate/persone trattenute continuano a mostrare che la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute – indipendente dai termini di trattenimento vigenti – si è sempre attestata attorno al 50%.
Il Garante quindi ha fatto notare, con dati in mano, come l’efficacia del sistema del trattenimento non sia direttamente correlata all’estensione dei termini massimi di permanenza nei Centri ma segua un andamento proprio. Molto, ovviamente, dipende dal livello di cooperazione offerto da ciascun Paese di provenienza dei cittadini stranieri.
L’ampliamento del campo di applicazione della misura con evidenti ricadute sul diritto fondamentale alla libertà dei cittadini stranieri irregolari non sembra quindi trovare un adeguato bilanciamento in effettive esigenze di sistema.
(Milad Fakurian)