Perché dovremmo trattare il fenomeno migratorio come il cambiamento climatico (linkiesta.it)

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Il capitale umano

Il continuo arrivo di rifugiati non è né un problema temporaneo, né si può arginare facilmente. Perciò bisogna dire la verità ai cittadini: il destino dell’Europa è quello di diventare un grande centro di accoglienza. Una volta capito possiamo trovare il modo di rendere questo afflusso di persone un vantaggio

Non sarebbe più onesto nei confronti dei nostri concittadini (e così i rispettivi governi con i cittadini europei) dire la verità sull’emergenza immigrazione? Ovvero che è un fenomeno irrisolvibile e che tutte le terapie proposte per impedire o dissuadere gli sbarchi (di cui si avvale, assumendosi grandi rischi, una parte minoritaria di quanti vengono ’’illegalmente’’ in Italia e in Europa) sono destinate a lasciare più o meno le cose come stanno.

Anche perché una democrazia deve fare i conti con un’opinione pubblica che passa dal chiedere i blocchi navali e le cannonate per fermare il naviglio dei dannati della terra alla commozione e alla critica dell’inerzia del governo quando (si veda il caso Cutro) si verifica un naufragio e le onde scaricano sul bagnasciuga il cadavere di un bambino.

Se è consentito un paragone audace l’immigrazione è come il cambiamento climatico. Può essere che nell’arco di alcuni decenni si possa affrontare quest’altra emergenza, ma nell’immediato (e per un tempo non breve) dobbiamo accendere i condizionatori. Così è per l’immigrazione.

L’Africa (almeno gran parte del continente) è rimasta esclusa dallo sviluppo, nonostante le risorse di cui dispone. La soluzione del ’’mal d’Africa’’ poggia sulla possibilità di invertire un inesorabile declino. Forse – come suggerisce nel suo ultimo saggio il prolifico Federico Rampini – ci sono più Afriche con cui misurarsi, superando la narrazione del destino ineluttabile di un ’continente dove tutto è povertà, siccità, fame e sete, mortalità infantile, epidemie.

Anche ammesso che ciò sia possibile (in Asia è avvenuto) non bastano le chiacchiere e soprattutto si ragiona di generazioni future. Anche tra i popoli – come testimonia una storia millenaria – è in vigore il principio dei vasi comunicanti.

Una striscia di mare dal Canale di Sicilia al Mar Egeo è la linea di demarcazione tra due modi rovesciati e opposti. La Terra è divisa a metà da una linea dell’equatore (non coincidente col meridiano geografico) demografico, economico, ambientale e sociale che divide in due l’umanità.

Il nostro Paese è, per banali ragioni geografiche, in prima linea di fronte al continente africano. Anche quelle forze politiche che attribuivano il fenomeno delle migrazioni a una congiura internazionale finanziata da George Soros, allo scopo di trovare dei nuovi schiavi di pelle nera pronti a prendere il posto dei lavoratori europei, al pari di quelle che bloccavano i porti e impedivano l’approdo delle navi delle ONG o minacciavano i blocchi navali – approdate al governo – si sono accorte che evocavano strategie, prima di tutto, inutili perché inefficaci.

Il ministro dell’Interno del governo giallo verde Matteo Salvini disertava gli incontri per la revisione del Trattato di Dublino, con grande soddisfazione dei paesi a cui il Trattato andava bene come era (visto che gli adempimenti sulla prima accoglienza toccavano all’Italia).

A quanto pare, dopo la missione a Lampedusa insieme a Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen avrebbe annunciato un cambiamento di linea politica: l’obiettivo non è più distribuzione solidale dei profughi tra i diversi paesi (peraltro mai decollata), ma quello di impedire la partenze, anche con un impegno navale diretto dell’Europa. Ma sono le piattaforme su cui poggiano i due continenti a determinare con il loro incontro un terremoto (l’evento meno prevedibile tra le sciagure).

L’aspetto che sconvolge ogni prospettiva futura è quello della crescita demografica attesa che porterà la popolazione africana dagli attuali un miliardo e cento milioni di persone a due miliardi e mezzo di abitanti nel 20cinquanta. La povertà del continente vede il settanta per cento della popolazione subsahariana vivere con meno di un dollaro al giorno, e il sessanta per cento della forza lavoro che si può considerare disoccupata. Il cinquanta per cento della popolazione ha meno di diciotto anni, da noi ogni cento bambini ci sono centosettanta anziani.

Nel 2050 – salvo clamorose inversioni dei trend della denatalità (comunque non così rapidi da modificare gli scenari attesi) l’Africa dovrebbe quintuplicare la propria produzione agricola (questi dati precedono la crisi del grano determinata dalla guerra in Ucraina) per sfamare la crescente popolazione; e già oggi all’Africa occorrerebbero ventidue milioni di posti di lavoro in più ogni anno per mantenere gli attuali (assai inadeguati) livelli di occupazione e disoccupazione.

Questi numeri vanno messi in parallelo con il declino demografico europeo: lo scenario “Convergence 2010-2060” prevede, in mezzo secolo, settanta milioni di abitanti in meno nel Vecchio continente, in particolare ventiquattro milioni di meno in Germania (meno ventinove per cento), quindici milioni in meno in Italia ( meno venticinque per cento), otto milioni in meno in Spagna ( meno diciotto per cento). Per mantenere l’attuale livello di popolazione attiva l’Europa dovrebbe accogliere 1,6 milioni di stranieri l’anno.

È questo il grande paradosso dell’immigrazione: «nec possum tecum vivere – direbbe il poeta – nec sine te». Diceva il generale Charles de Gaulle che non era possibile governare un paese che aveva più di quattrocento tipi di formaggio. Come si fa a impedire gli sbarchi con settecentocinquanta chilometri di coste?

Del resto i fenomeni migratori appartengono alla storia del pianeta. Negli Stati Uniti i cittadini di origine irlandese sono pari a undici volte gli abitanti dell’attuale Irlanda. La comunità ispanoamericana si avvia a diventare la seconda in quel caleidoscopio di etnie; negli ultimi dieci anni è aumentata del quarantatré per cento. Tra la fine del XIX secolo e la seconda metà del XX sono emigrati dall’Italia trenta milioni di esseri umani a cercare fortuna in tutti gli altri continenti. Si stima che nel mondo gli oriundi italiani siano tra il sessanta e gli ottanta milioni.

Prima dell’allargamento a Est della Unione europea, il maggior numero di immigrati clandestini proveniva da quei paesi. Il problema è stato superato riconoscendo loro la cittadinanza della Ue. Il Governo vuole rivisitare il reato di immigrazione clandestina: l’Italia non sarebbe un’eccezione; altri paesi di più antica comunanza con il fenomeno, sanzionano da decenni tale reato. C’è solo una piccola differenza: in questi paesi, a differenza del nostro, l’azione penale non è obbligatoria.

Tutto ciò premesso, investire nell’accoglienza non è una scelta, ma una necessità. Il solo modo per togliere di mezzo i mercanti di carne umana è quello di organizzare non solo dei corridoi umanitari, ma dei veri e propri servizi di linea con giorni e orari prestabiliti e relativo pagamento del biglietto (ovviamente non ai prezzi degli scafisti) con diverse destinazioni lungo la penisola che non sia solo Lampedusa o le coste della Sicilia e della Calabria.

In fondo è questo il destino dell’Europa: diventare un grande centro di accoglienza per ciò che le sta mancando e mancherà sempre più: il capitale umano. In primo luogo occorrerà usare altre parole: il concetto di emergenza delinea una crisi acuta e temporanea. Le migrazioni sono una cosa diversa: la cronaca di una crisi annunciata.

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