PIO XII SAPEVA (corriere.it)

di Massimo Franco

Le «Carte» di Pio XII oltre il mito. 

Eugenio Pacelli nelle sue carte personali. Cenni storici e inventario

(PIO XII: EBREI ROMA; DIALOGO IMPORTANTE MA NO AVALLO PACELLI. IL DOCUMENTO VOTATO ALL’UNANIMITA’ DAL CONSIGLIO COMUNITA’ – Papa Pio XII Eugenio Pacelli in un’immagine d’archivio.
ANSA / ARCHIVIO / JI)

Il curatore – Giovanni Coco è nato a Catania nel 1972. Laureato in Lingue presso l’Università di Catania, lavora all’Archivio Apostolico Vaticano dal 2002, dove è archivista e ricercatore. Ha pubblicato nel 2006 il volume Santa Sede e Manciukuò (1932-1945), edito dalla Libreria Editrice Vaticana, e nel 2019 Il Labirinto Romano. Il filo delle relazioni Chiesa-Stato tra Pio XI, Pacelli e Mussolini (1929-1939), con prefazione di Emilio Gentile, edito dall’Archivio Segreto Vaticano.

«Questa è una lettera inedita, scritta da un gesuita tedesco antinazista, Lothar König. Contiene un allegato con una statistica di sacerdoti detenuti nei campi di concentramento fatti costruire da Adolf Hitler. Ma soprattutto parla di Auschwitz e di Dachau. E riporta da fonti credibili notizie secondo le quali ogni giorno circa seimila tra ebrei e polacchi venivano uccisi “negli altiforni” del Lager di Bełzec, vicino al confine ucraino. È datata 14 dicembre 1942…».

Giovanni Coco, uno degli «ufficiali» — nel lessico della gerarchia interna — più apprezzati di quello che fino al 2019 è stato l’Archivio Segreto Vaticano, poi rinominato Apostolico, mostra il foglio dattiloscritto e ingiallito emerso dal labirinto dei faldoni conservati nel bunker sotterraneo dove si protegge la memoria della Chiesa e dell’Occidente: anche la più inconfessabile. Lo estrae da una cartella di cartone azzurrina con la vecchia intestazione dell’«Archivio Segreto Vaticano».

Accanto a lui, davanti alla grande vetrata che dà sui Giardini pontifici, sotto un quadro a olio della scuola di Caravaggio, intitolato I due giocatori, siede monsignor Sergio Pagano, il vescovo che dal 1997 è prefetto dell’Archivio: l’uomo tra le cui mani sono passati e passano i documenti più riservati. Pagano assiste alla conversazione intervenendo il minimo possibile. Ma è stato lui a incaricare Coco di capire che cosa contenessero quelle buste maltrattate, a volte perfino manomesse; e consegnate solo dopo richieste pressanti.

Nei mesi scorsi, dopo un riordino faticoso e ricerche minuziose, è emersa una verità destinata a rianimare la discussione sui «silenzi di Pio XII» a proposito dello sterminio degli ebrei. Prende corpo una storia di minacce naziste contro la Chiesa cattolica; di pregiudizi vaticani ai limiti dell’antisemitismo; di terrore papale per le possibili rappresaglie di Hitler. Spunta perfino un pugnale con le insegne naziste, che un soldato delle SS pentito avrebbe consegnato a Pio XII, dopo avergli confessato che doveva servire per ucciderlo.

Dottor Coco, che valore ha questa lettera?

«Enorme, credo. È un caso unico, perché rappresenta la sola testimonianza di una corrispondenza che doveva essere nutrita e prolungata nel tempo. Si capisce dalla familiarità con la quale Lothar König si rivolge in tedesco a padre Robert Leiber, segretario di Pio XII. Lieber Freund!, caro amico. König era l’uomo di collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, il cardinale Michael von Faulhaber, nemico giurato del nazismo, e il Vaticano. Faceva parte del Circolo di Kreisau, una rete della resistenza tedesca composta da cattolici e protestanti, la cui intelligence era in grado di fare arrivare a Roma le notizie più riservate sui crimini hitleriani».

È la sola testimonianza esistente o la sola che avete? Potrebbero esistere altre lettere?

«Non possiamo escludere nulla. Questa l’abbiamo recuperata. Ma esiste il sospetto fondato che altre carte possano essere state distrutte già durante la guerra, per paura, o siano andate perdute dopo la morte del Papa. Sa, i documenti su Pio XII sono costati vent’anni di ricerche e tre di riordino. E la lettera di König ci è arrivata dai depositi della Segreteria di Stato, e nello stato penoso in cui si trova, in tempi relativamente recenti, nel 2019».

Possibile che non ve ne siate accorti prima?

«Purtroppo è possibile. Non l’avevamo perché non ci era stata consegnata dalla Segreteria di Stato che, da parte sua, fa fatica a raccogliere e versare a noi i molti documenti prodotti nei suoi tanti uffici e conservati in mille rivoli. I discorsi e i dattiloscritti di Pio XII erano stati messi in contenitori di plastica in un’ala dell’archivio, i cosiddetti “Soffittoni”, dove tra l’altro si stavano rovinando per il calore e l’umidità. Le altre carte erano persino raccolte alla rinfusa».

Per incuria o in malafede?

«Per incuria soprattutto. Probabilmente chi ha maneggiato quei documenti prima di noi non ha capito l’importanza del contenuto. Sa, nel passato non sempre gli archivi venivano visti come una priorità in alcuni uffici del Vaticano. E non sempre nel passato — fuori da qui — gli archivisti sono stati selezionati con occhio per la loro professionalità».

La lettera di König parla di Dachau e di Auschwitz. Era la prima volta che arrivavano notizie sullo sterminio in quei campi?

«No. Il nome di Dachau era già noto da molto tempo e dal gennaio 1941 era divenuto il campo di detenzione per il clero. E in realtà anche il nome di Auschwitz era conosciuto in Vaticano sin dal 1941. Era noto come campo di concentramento e ne avevano parlato diversi sacerdoti che vivevano in Europa orientale o comunque viaggiavano in quei Paesi occupati dai nazisti. La novità e l’importanza di questo documento derivano da un dato di fatto: sull’Olocausto, stavolta si ha la certezza che dalla chiesa cattolica tedesca arrivavano a Pio XII notizie esatte e dettagliate sui crimini che si stavano perpetrando contro gli ebrei.

Si parla del Lager di Bełzec, non lontano dalla cittadina ucraina di Rava-Rus’ka dove tra il 5 e l’11 dicembre 1942 erano stati fucilati più di cinquemila ebrei. “Le ultime informazioni su Rawa-Russka con il suo altoforno delle SS, dove ogni giorno muoiono fino a 6000 uomini, soprattutto polacchi e ebrei, le ho trovate confermate da altre fonti…”, scrive König. Ma nella lettera si accenna anche a un altro rapporto che non conosciamo ancora, riferito ad Auschwitz».

È un’ulteriore conferma che il Papa sapeva.

«Sì, e non solo da allora. Ma la lettera indicava qualcosa di nuovo. Dava notizie di prima mano sui campi di sterminio. In Vaticano inizialmente i Lager erano noti come luoghi di detenzione di massa, soprattutto per polacchi e per ebrei, dove si moriva per le sevizie ricevute. Soltanto dopo si acquista coscienza della “soluzione finale”».

König e la sua rete di intelligence sono sopravvissuti alla guerra?

«Dopo l’attentato del colonnello Stauffenberg contro Hitler del luglio 1944, König diventò un ricercato. E per sfuggire alla cattura si rifugiò nella carbonaia di un convento a Pullach, vicino a Monaco di Baviera. Lì è rimasto nascosto fino al termine del conflitto. Ma si ammalò e morì poco dopo la caduta del nazismo. D’altronde, sapeva di rischiare la vita. Nella lettera lo dice chiaramente».

Lo dice in quali termini?

«Raccomandandosi con il Vaticano di usare quelle informazioni con la massima cautela, senza dire una sola parola che potesse tradire le fonti. König temeva una fuga di notizie dal Vaticano, oppure che la lettera potesse essere scoperta in caso di un’irruzione nazista. Scrive: “…Ecco la continuazione della mia lista dell’ultima volta. I numeri sono ufficiali… C’è anche un rapporto di vari testimoni oculari sul trattamento” riservato agli ebrei a Dachau. “Entrambi gli allegati sono stati ottenuti con il massimo rischio. Non solo è a rischio la mia testa ma anche la testa degli altri se non vengono usati con la massima prudenza e cura…”. Era un invito al silenzio per non bruciare la rete della resistenza tedesca al nazismo».

Esisteva davvero il timore o la possibilità che il Vaticano fosse occupato dai nazisti?

«Voci ne giravano. Quanto fossero vere e quanto fossero credute, è difficile a dirsi. Della volontà di Hitler di occupare il Vaticano esistono vari indizi, ma non sappiamo quanto fosse concreta durante la guerra».

Che cosa vuol dire?

«Se avesse vinto la guerra non era escluso che il Führer pensasse a “regolare i conti” con il Vaticano. E nel 1942 non si escludeva ancora che Hitler potesse riuscirci. Le voci erano così insistenti che Pio XII chiese conferma all’ambasciatore tedesco del tempo, Ernst von Weizsäcker, che naturalmente lo escluse. Ma il Papa avvertiva questa pressione minacciosa».

Secondo lei come ne esce la figura di Pio XII? Un Pontefice minacciato e pavido, o un Papa preoccupato dalle possibili rappresaglie?

«Pavido no. A Weiszäcker papa Pacelli disse: “Io resto qui”. Ma certamente oppresso dalla sensazione di essere preso di mira, di essere un possibile bersaglio. D’altronde, se perfino un soldato delle SS poteva incontrarlo e donargli il coltello destinato a trafiggerlo…».

Già, la storia del pugnale… Sembra la trama di un film. Le pare una vicenda credibile?

«È vero che in quegli anni giravano molti matti. Ma sembra che sia una storia vera. La prima volta se n’è parlato nella ristretta cerchia papale nel 1963, quando Giovanni XXIII trovò in un angoletto dell’appartamento pontificio di Pio XII un pugnale tedesco con il fregio nazista. Chiese al sostituto della Segreteria di Stato monsignor Angelo Dell’Acqua di che cosa si trattasse. Ma dell’Acqua non ne sapeva nulla. E allora si rivolse a suor Pascalina Lenhert, “l’oracolo” di Pio XII, la sua governante. E suor Pascalina rivelò che il pugnale era stato portato in udienza da un membro delle SS che lo doveva usare contro Pio XII. Ma il soldato si era ravveduto e ne aveva fatto dono al Papa».

Un nazista armato poteva arrivare al cospetto di Pio XII senza essere controllato?

«I controlli in quel periodo erano blandi. Si era in guerra. E le richieste di udienza erano abituali. Allora c’era la fila dei tedeschi, e dopo la fine del conflitto in udienza sfilarono americani, canadesi, inglesi, australiani».

In quelle settimane il Papa fu sollecitato da Myron Taylor, rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, a dire parole forti sulla persecuzione degli ebrei. Ma non lo fece. Perché? Gli elementi li aveva.

«Influirono anche altri timori: in primo luogo la possibilità concreta di rappresaglie naziste contro i cattolici polacchi, il suo gregge di fedeli. Avrebbe significato recidere i rapporti con i vescovi di quella comunità già sotto il tallone nazista. E poi, in larga parte del mondo vaticano ristagnava il pregiudizio contro gli ebrei non solo sul piano religioso, ma talvolta anche antisemita».

Si riferisce a qualcuno in particolare?

«Mi riferisco in particolare a monsignor Angelo Dell’Acqua, che paradossalmente si era visto affidare il dossier degli ebrei. E non per un disegno ma per caso. Era entrato nella Segreteria di Stato nel 1938, proprio alla vigilia delle leggi razziali in Italia. E diventò il referente prima per le pratiche relative agli ebrei italiani e poi per tutte le questioni del mondo ebraico».

E influenzò la posizione di Pio XII?

«Molto, purtroppo. I suoi pareri venivano ascoltati: era l’“esperto”. Comunque, forniva un indirizzo, una direzione di marcia nell’interpretazione delle notizie che arrivavano. Anche sulla risposta data a Myron Taylor c’è il suo zampino. Sminuì le rivelazioni sui campi di sterminio. Disse che non c’era da fidarsi troppo degli europei orientali e degli ebrei, che tendevano a esagerare. Scrisse che quanto scriveva Taylor conteneva “notizie gravissime”. Ma, chiosò, “occorre assicurarsi che corrispondano a verità, perché l’esagerazione è facile anche fra gli ebrei. E… anche gli orientali non sono un esempio in fatto di sincerità”».

Il problema è che il Papa ha avallato questa analisi riduttiva, pur avendo altre notizie.

«Era funzionale a una linea cauta, in fondo già decisa, nel timore che i nazisti colpissero tutti i cattolici polacchi: benché esistesse anche un appunto di monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, pure questo inedito, che registrava un colloquio avuto il 27 settembre con monsignor Enrico Pucci, ben introdotto negli ambienti del regime fascista e nei servizi segreti. Era un sacerdote tanto ben informato quanto discusso».

E che cosa diceva l’appunto?

«Raccontava che monsignor Pucci aveva parlato con il ministro Guido Rocco, ex ambasciatore e direttore della stampa estera presso il ministero della Cultura Popolare. E che Rocco gli aveva “manifestato sentimenti di deplorazione per le terribili deportazioni e eliminazioni che si stanno facendo di ebrei innocenti”».

Un ministro fascista che deplorava la strage degli ebrei?

«Un ministro fascista che aveva una moglie di origine ebraica. Anche per questo la sua confidenza fu ritenuta così credibile da indurre Montini a scrivere un appunto da fare avere al Papa».

Questi documenti non sono un altro macigno sul processo di beatificazione di Pio XII?

«Non saprei dirlo. Sicuramente aiutano a spiegare meglio il suo comportamento. Certamente, dubito che la Postulazione abbia mai conosciuto prima queste carte, vista anche la loro storia avventurosa. Da quanto si sa, Pio XII è stato dichiarato “venerabile” nel 2009, con decreto di Benedetto XVI che ne “attesta l’eroicità delle virtù”, come si dice in linguaggio tecnico. Ma mi pare che da allora il processo non abbia fatto molti passi avanti».

Lei sulle «Carte di Pio XII oltre il mito» ha scritto un libro. E a ottobre parteciperà a un convegno organizzato dall’Università Gregoriana insieme, tra l’altro, con il Museo dell’Olocausto di Washington e lo Yad Vashem di Gerusalemme. Che effetto avranno questi nuovi documenti sui rapporti tra Santa Sede e mondo ebraico? Non sono destinati ad alimentare nuove polemiche?

«Io spero che invece alimentino una nuova consapevolezza e aiutino a fare chiarezza. Abbiamo dibattuto per più di mezzo secolo su documenti e fonti indirette. Ora abbiamo quelle dirette, e altre probabilmente emergeranno. Noi ci sforziamo di renderle il più possibile accessibili a tutti, perché si capisca la stagione terribile nella quale Pio XII ha guidato la Chiesa. Deve emergere tutto, senza paure né pregiudizi. È quanto stiamo facendo negli ultimi anni qui all’Archivio».

Il prefetto Pagano sorride e annuisce. È stato lui il primo a volere e raccomandare la massima trasparenza sulle carte di Pio XII.

La lettera è datata 14 dicembre 1942. La scrive, con una familiarità che denota una lunga consuetudine, il gesuita tedesco Lothar König, membro della rete della resistenza, uomo di collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, nemico del nazismo, e il Vaticano. La riceve padre Robert Leiber, segretario del Papa. È dettagliata, circoscritta, drammatica. Parla di Dachau e Auschwitz, dei crimini contro gli ebrei, di uno sterminio quotidiano. L’ha trovata Giovanni Coco, archivista e ricercatore presso l’Archivio Vaticano, che a «la Lettura» rivela: «È un caso unico, ha un valore enorme». Poi spiega: «Noi cerchiamo di fare chiarezza, anche per comprendere la stagione terribile in cui Pacelli guidò la Chiesa»

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