di Sergio Fabbrini
Per i nostri leader di destra e di sinistra, l’identità è la materia di cui è fatta la politica.
Le identità servono a delimitare distinte comunità sentimentali, derivato della lunga storia del Novecento. Il problema è che le identità sono gabbie che si aprono lentamente, mentre la realtà intorno ad esse cambia velocemente. E quando le prime debbono gestire la seconda, allora emergono i problemi.
Cominciamo dalle forze di governo. Esse hanno dovuto prendere atto che non si può governare un’economia interdipendente sulla base di provvedimenti decisi indipendentemente. Quindi, obtorto collo, hanno dovuto fare i conti con la realtà, mettendo nel cassetto le palingenetiche promesse elettorali su pensioni e tasse. Anche nel campo cruciale della politica migratoria, il governo ha dovuto prendere atto di quanto fossero infantili le sue promesse elettorali, a cominciare dal blocco navale militare per fermare i flussi.
Ma invece di costruire un nuovo discorso politico a partire dai “duri fatti” della realtà, la premier Giorgia Meloni non ha rinunciato al vecchio discorso politico che è la materia della sua identità. Nel marzo scorso, la premier Giorgia Meloni si impegnò ad introdurre un nuovo reato contro gli scafisti così «da tenerli in carcere per almeno trent’anni», di cui non si ha notizia.
Nel maggio successivo, è stato approvato il cosiddetto decreto Cutro che promette l’espulsione di immigrati irregolari e la lotta ai “trafficanti di esseri umani”, senza predisporre infrastrutture e risorse per implementarlo. Dopo la recente crisi di Lampedusa, il governo ha stabilito di aumentare il numero dei Centri di permanenza per i rimpatri, al cui interno gli immigrati irregolari potranno essere trattenuti per un massimo di 18 mesi, per essere quindi rispediti nei loro Paesi di origine.
Come? Di fronte allo stupro collettivo di Caivano dell’agosto scorso, la premier promette la militarizzazione del territorio, con il risultato di catturare qualche piccolo spacciatore. Quei decreti, quelle norme, quelle promesse non sono basate su studi approfonditi, sulla conoscenza di politiche pubbliche alternative adottate in altri Paesi, ma semplicemente sul richiamo della foresta. Dire alla propria tribù che «non ho cambiato idea» (come ha dichiarato in un suo recente messaggio). Primario è confermare la comunità identitaria cui si appartiene (con il suo sentimento di rivalsa), non già risolvere i problemi. Che, infatti, peggiorano di giorno in giorno.
Se Atene piange, Sparta però non ride. La leader della principale forza dell’opposizione ha fatto dell’identità la cifra della sua azione. Non dovendo fare i conti con la responsabilità di governo, la missione di Elly Schlein è “ricostruire” la comunità identitaria della sinistra. Una comunità anch’essa sentimentale, essendo priva di un preciso ancoraggio culturale, tenuta insieme dall’ambiguità, se non dal risentimento. Elly Schlein promette una politica redistributiva, senza dire come costruire la ricchezza su cui promuoverla. Non le interessa la crescita economica, ma rassicurare la sua comunità che i suoi bisogni verranno soddisfatti.
Come? Con ulteriore spesa pubblica, garantita da chi? La politica fiscale è vista solamente sul versante della lotta all’evasione, non già anche come uno strumento per favorire lo sviluppo del Paese. Eppure, come ha detto Keith Starmer, il leader del partito laburista inglese, «se si vuole aiutare i lavoratori, occorre far crescere l’economia»”. Ciò dovrebbe valere vieppiù in Italia, che non cresce da 15 anni.
Elly Schlein promette di promuovere un referendum contro il Jobs Act, legge introdotta dal governo Renzi (di centro-sinistra) nel 2015, senza presentare evidenze, dati, studi che dimostrino il suo insuccesso. Quella promessa, però, allarga la comunità identitaria ad alcuni sindacati, a non pochi professionisti dei media, ai populisti che la insidiano. Elly Schlein critica Marco Minniti, ministro degli interni del governo Gentiloni (di centro sinistra) nel 2016-2018, per la sua politica di contrastare l’immigrazione regolare con accordi con i Paesi di origine, senza aggiungere una parola sulla politica alternativa che vorrebbe promuovere.
Per lei, la sicurezza non è un bene primario in una società liberale, ma una strumentalizzazione degli avversari. Di fronte alla guerra in Ucraina, Elly Schlein non difende con chiarezza la collocazione occidentale dell’Italia, il suo impegno a difendere Kiev, perché vuole rassicurare la sua comunità sentimentale che è più antiamericana che antirussa.
Sostiene che l’Italia non dovrebbe rispettare l’impegno (preso da tutti Paesi della Nato) ad aumentare la sua spesa della difesa al 2% del Pil, oppure rinvia «a quando sarà al governo» la decisione se continuare ad inviare armi a Kiev, perché vuole rassicurare la sua comunità identitaria che è pacifista e non interventista. Saranno altri a decidere come difendere l’Ucraina e noi stessi, perché a lei interessa rassicurare la sua tribù «finalmente di sinistra».
E’ morto Giorgio Napolitano. I suoi meriti sono molteplici. Ma un merito è più meritevole degli altri. Lo sforzo di uscire dalla gabbia identitaria (di natura quasi religiosa, com’era quella comunista) da cui proveniva per fare i conti con la realtà. Uno sforzo titanico, con inevitabili errori, se si pensa alle condizioni storiche in cui ha operato. Eppure, ha dimostrato che dalle gabbie identitarie si può uscire. Giorgia Meloni ed Elly Schlein, invece, non sono interessate a farlo. Per loro, le rispettive tribù contano più del Paese.