di GIULIO PECCI
Oltre il rap: a cinque anni dall’uscita di To Pimp A Butterfly, un’analisi dell’importanza musicale e sociale dell’album.
il 2014, il jazzista e produttore Terrace Martin è in studio a Los Angeles con il rapper Kendrick Lamar. Ascoltano musica, cercano l’ispirazione. Il gusto di Lamar continua a dirigersi verso sonorità e accordi di matrice jazz. Quando Martin glielo fa notare, a Kendrick improvvisamente sembra tutto chiaro. È un jazzista nei panni di un rapper. Qualche mese dopo i due si ritrovano in studio, insieme ad alcuni dei migliori musicisti jazz e produttori hip hop per lavorare al terzo album ufficiale di Lamar, To Pimp A Butterfly.
A marzo 2020 l’album ha compiuto i suoi primi cinque anni di vita; un lasso temporale ancora breve ma durante il quale la forza del disco si è manifestata in modo inconfutabile. To Pimp A Butterfly ha contribuito ad accelerare una serie di processi musicali già in moto, tra cui la nuova rilevanza e libertà creativa di cui gode il jazz contemporaneo.
Quando inizia a scrivere l’album, Kendrick Lamar è depresso. È una star affermata e in ascesa, un percorso abbastanza lineare iniziato nei primi anni Duemila con una serie di mixtape seguiti da un ottimo debutto – Section.80 – e nel 2013 il successo del suo secondo disco, il primo per una major – Good Kid, M.A.A.D. City: un album fortemente autobiografico, la narrazione della sua infanzia e adolescenza a Compton, la povera e violenta area losangelina a maggioranza afroamericana. Il luogo di nascita stereotipato del cosiddetto gangsta–rap e dell’antagonismo tra gang di strada.
Lamar ha già la sindrome del sopravvissuto; per sua stessa ammissione ha sempre avuto un problema con i cambiamenti, ad accettare che le cose possano sfuggire al suo controllo. Un senso di colpa che si acuisce mentre gira in tour per il mondo, lontano dal suo quartiere dove tutto scorre immutato … leggi tutto