di Paolo Mieli
No, non è come la guerra del Kippur.
Anche allora Israele fu colta di sorpresa, ma quelli di cinquant’anni fa erano eserciti (arabi) contro un esercito (israeliano), soldati contro soldati, divise contro divise. Stavolta si tratta invece di miliziani Hamas, che sgozzano abitanti di Israele, i quali non avevano altra colpa se non di aver casa vicino ai confini di Gaza. Bene hanno fatto i giornali e le tv a non mostrare quelle immagini raccapriccianti.
Così come fu giusto non pubblicare o mandare in onda quelle altrettanto crudeli delle infamie russe contro gli inermi ucraini. Anche perché stavolta è assai peggio di altre guerre, compresa quella del 1973: quei filmati sono molto molto più crudi ed è impossibile, come ci ha insegnato proprio l’Ucraina, immaginare che la partita si chiuda qui. Perciò, al di là dei nostri auspici, è probabile che nei prossimi giorni vengano alla luce altri massacri. Persino peggiori.
Conosciamo tutti la complessità della questione mediorientale (quantomeno ne sanno qualcosa quelli che davvero se ne sono occupati seriamente). E siamo consapevoli del fatto che, in quel contesto, «bene» e «male» non sono collocabili per intero da una parte o dall’altra. Ma fa davvero impressione che ci sia un certo numero di nostri connazionali — cantanti o rettori d’università — i quali, senza concedersi neanche un attimo di rispettoso silenzio al cospetto di incursioni esplicitamente indirizzate ad uccidere «ebrei» (non «israeliani», «ebrei»), abbiano ritenuto di esaltare i «legittimi attacchi palestinesi».
E abbiano addirittura criticato coloro che anche a sinistra avevano condannato quei misfatti perché — sempre secondo gli stessi cantanti e rettori — non avrebbero «a cuore la libertà e l’autodeterminazione dei popoli», desiderosi esclusivamente di «servire gli interessi dell’imperialismo occidentale del quale sono servi e portavoce».
Allo stesso modo fa una certa impressione assistere allo spettacolo di quelli che, come accade da decenni, hanno immediatamente girato i riflettori sulla «terribile reazione israeliana». Una «reazione», quella israeliana, sottolineiamo. Non un’aggressione. Una risposta ad atti che partono da una terra, la striscia di Gaza, consegnata nel 2005 da Israele ai palestinesi. Striscia da cui, nel corso dei diciotto anni successivi al ritiro da quella terra di ogni cittadino israeliano, sono venuti solo attacchi terroristici. Con l’unica differenza che quelli del passato erano meno spietati di quelli di ieri mattina.
Vale la pena di soffermarci su quelle che prevedibilmente nei prossimi giorni saranno le «reazioni alla reazione». Speriamo di essere in errore ma siamo sicuri che tutti (proprio tutti) quelli che hanno considerato eccessiva la risposta armata degli ucraini all’aggressione russa, definiranno sproporzionata l’azione israeliana contro gli aggressori di Hamas.
Diranno che Netanyahu è un assassino e ci mostreranno immagini di innocenti morti a causa di bombe israeliane. Per poi invocare una pace del cui mancato ottenimento il premier israeliano sarebbe l’unico responsabile. Dopodiché l’ecatombe di ieri (come tante altre del passato, sia pure di minore entità) passerà in secondo piano per essere al più presto dimenticata. Ma stavolta sarà più arduo tornare a questo consueto copione. Stavolta è suonata la campana della guerra. Guerra forse scongiurabile solo con un riesame obiettivo di quel che è accaduto negli ultimi mesi.
Questo riesame può indurci ad analisi più meditate. Al termine delle quali scopriremmo che tra gli obiettivi delle azioni di ieri, oltre a Israele, potrebbe esserci anche l’Arabia Saudita. Arabia Saudita che nel marzo scorso, sollecitata da una mediazione cinese, aveva firmato un accordo con l’Iran (probabile mandante degli attuali attentati) per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche.
La stessa Arabia Saudita che, con una imprevedibile giravolta, in settembre si era pubblicamente riavviata sulla strada dell’avvicinamento a Israele. Strada, al termine della quale, Riad sarebbe forse giunta a sottoscrivere il patto degli «Accordi di Abramo» già stipulato nel 2020 da Israele con Emirati arabi uniti, Bahrein e Marocco. Paesi che sono andati ad aggiungersi a Giordania ed Egitto, i quali già da anni avevano normalizzato i rapporti con lo Stato ebraico.
Un’ultima osservazione. Apparentemente non c’è alcuna connessione tra gli accadimenti ucraini e quelli israeliani. Ma è solo apparenza. Sergio Mattarella, l’altro ieri, ha evocato il clima che precedette lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ovviamente il Capo dello Stato non poteva conoscere in anticipo quel che stava per accadere in Israele. Ma tra il 1938 e il 1939 andò esattamente come ha detto il presidente della Repubblica: l’Europa non si accorse dell’intima connessione tra fatti gravissimi in apparenza slegati uno dall’altro. E cedette, cedette, cedette finché si trovò di fronte all’inferno.
Speriamo di non dover un giorno rileggere le parole di Mattarella di questo ultimo biennio a proposito dell’Ucraina e adesso di Israele, di non doverle rileggere, dicevamo, come una profezia. Parole pronunciate con lucidità e coerenza. Talvolta trascurate. Ma che, diciamolo per inciso, sono l’unico possibile contributo di un concreto impegno per la pace.