Israele colto di sorpresa come 50 anni fa (la guerra dello Yom Kippur) (corriere.it)

di Federico Rampini

Oggi, come nel 1973, si ha l’impressione che 
Israele si sia fatto prendere di sorpresa. 

Come si spiegano le difficoltà israeliane?

L’attacco di Hamas contro Israele sembra “celebrare” a modo suo il 50esimo anniversario della guerra dello Yom Kippur, che ebbe inizio il 6 ottobre 1973.

Oggi come allora, si ha l’impressione che Israele sia stato preso di sorpresa. Un’offensiva come quella di Hamas con oltre duemila razzi lanciati richiede una preparazione, che le forze armate israeliane non sembrano avere avvistato in anticipo, a giudicare dall’assenza di prevenzione e protezione, nonché dall’elevato bilancio di vittime.

Quali fattori possono spiegare la difficoltà iniziale di Israele? Forse un ingrediente è simile al 1973: un senso di superiorità eccessivo, che infonde sicurezza e può indurre ad abbassare la guardia contro i pericoli. Un’altra spiegazione può collegarsi alla lacerazione profonda della società israeliana. Infine l’attacco di Hamas va visto nel quadro della rivoluzione geopolitica del Medio Oriente: fino a ieri si dava per imminente una storica riconciliazione tra Arabia saudita e Israele; la guerra di queste ore può essere un tentativo di Hamas (e del suo protettore, l’Iran) di sabotare quel disgelo.

Torno al precedente del 1973, la guerra che “cambiò il mondo” in molti sensi. Per noi occidentali fu il primo grave shock energetico (legato all’embargo petrolifero dei paesi arabi contro chi aveva appoggiato Israele), ma anche uno stimolo per esplorare innovazioni come l’energia solare e l’auto elettrica.

In Medio Oriente quel conflitto significò molte cose. Anzitutto, poiché le mosse iniziali della guerra videro le forze armate israeliane in difficoltà e in arretramento rispetto alla coalizione avversaria guidata da Egitto e Siria, il mondo arabo visse un riscatto rispetto all’umiliazione del 1967, una guerra-lampo (“sei giorni”) che era stata un trionfo per Tel Aviv. Ma nel medio periodo la guerra dello Yom Kippur partorì uno sviluppo diplomatico clamoroso in tutt’altro senso, cioè la pace tra Egitto e Israele, lo sganciamento del Cairo dall’orbita dell’Unione sovietica, un capolavoro firmato dall’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger.

Oggi centenario, Kissinger l’ho incontrato in persona questo giovedì 5 ottobre a New York. Parlava a un convegno del Council on Foreign Relations dedicato proprio alla guerra dello Yom Kippur. Accanto a lui c’era l’ex premier israeliano Ehud Barak, che nel 1973 rischiò la vita sul Sinai al comando di un battaglione di carrarmati impegnato a recuperare terreno dopo l’avanzata iniziale degli egiziani. Sia Kissinger che Barak hanno ricordato gli errori di allora.

Kissinger ha ammesso di avere inizialmente sottovalutato il presidente egiziano Sadat «che mi sembrava una figura dell’opera Aida di Verdi». Barak, militare di carriera che in seguito sarebbe diventato premier dal 1999 al 2001, ha ricordato che nel 1973 i vertici d’Israele erano convinti che la loro vittoria del 1967 avesse segnato una superiorità incolmabile rispetto alle risorse militari dei paesi arabi, allora quasi tutti nemici.

I comandanti delle forze armate israeliane giudicavano l’Egitto incapace di attaccare finché non avesse raggiunto una parità aerea, dalla quale era ben lontano. L’allora premier Golda Meir ignorò l’avviso del re Hussein di Giordania – l’unico paese arabo non ostile a Israele – che l’aveva messa in guardia due settimane prima dell’offensiva. Alla fine gli israeliani riuscirono a ricacciare indietro gli assalitori, e durante la loro controffensiva arrivarono a minacciare sia il Cairo sia Damasco. Ma «il danno subito dalla nostra autostima fu profondo», ha ricordato Barak.

Oggi mentre il premier Benjamin Netanyahu dichiara «siamo in guerra», è possibile azzardare qualche parallelo. Se Hamas ha colto di sorpresa il governo Netanyahu, quali possono essere stati i fattori equivalenti “all’ effetto 1967” che rese gli israeliani troppo sicuri di sé cinquant’anni fa? Ne vedo due ordini.

In primo luogo Israele oggi è ancora più potente di cinquant’anni e al tempo stesso è molto meno isolato. Il mondo arabo sta isolando la Palestina, semmai, o almeno quelle forze insediate in aree palestinesi che si appoggiano all’Iran (Hamas, Hezbollah). Grazie agli accordi di Abramo, favoriti dalla diplomazia americana, Israele ha stabilito rapporti diplomatici con Emirati arabi, Bahrein, Marocco, Sudan.

Sembra imminente una svolta ancora più significativa, cioè l’allacciamento di rapporti diplomatici con l’Arabia saudita di Mohammed Bin Salman(MbS). Una svolta storica… se e quando arriverà. Israele da questo punto di vista è in una situazione geopolitica molto più favorevole di quella che lo vedeva accerchiato da una folla di nemici nel 1973. Questo può aver contribuito a un senso di sicurezza eccessivo. E viene il sospetto che l’attacco di Hamas possa essere anche indirizzato contro l’Arabia saudita.

Il principe MbS, che porta avanti un disegno modernizzatore, è sempre meno incline ad aiutare i palestinesi visti i loro legami con il grande rivale dell’Arabia che è il regime iraniano degli ayatollah. Al tempo stesso, per non urtare troppo le sensibilità del mondo arabo, MbS prima di annunciare il suo riconoscimento diplomatico di Israele deve ottenere qualche concessione almeno simbolica in favore dei palestinesi. Un’operazione resa molto più difficile dai combattimenti che infuriano in queste ore. Hamas, con l’appoggio dell’Iran, s’infila come un cuneo dentro l’avvicinamento tra MbS e Netanyahu.

L’Iran rimane una potenza destabilizzante in tutta l’area. Un altro fattore che può avere indebolito il livello di preparazione delle forze di difesa israeliane, è la profonda divisione del paese. I progetti di riforme costituzionali di Netanyahu, che secondo l’opposizione minacciano gli equilibri istituzionali e la democrazia stessa, hanno accentuato le proteste, le lacerazioni. Il turbamento arriva a lambire le forze armate e i servizi d’intelligence.

La società civile israeliana vive una crisi profonda. Netanyahu appare come un premier che pur di rimanere al potere accetta i ricatti di forze politiche dell’estremismo religioso sempre più potenti e privilegiate: vedi l’esenzione dal servizio militare. Troppo concentrata sui problemi interni, la società israeliana può avere abbassato la guardia sulle minacce da fuori.

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