Cantava Guccini:
“I vecchi subiscon le ingiurie degli anni/Non sanno distinguere il vero dai sogni/ I vecchi non sanno nel loro pensiero/Distinguer nei sogni il falso dal vero” (Il vecchio e il bambino). Una canzone bellissima, pervasa dalla struggente malinconia di chi guarda un mondo che non riconosce più, perché non è più il suo.
Ma la vecchiaia non è destinata per forza ad essere un tempo fermo e malinconico in cui quasi niente succede, niente di bello almeno. Una specie di attesa più o meno lunga della fine. Sì, spesso è un tempo vuoto di accadimenti, o di responsabilità e riconoscimenti, ma dipende soltanto da noi riempirlo di valore, di cura per tutto quello, e spesso è tanto, che si è trascurato durante la vita attiva. Ecco, la vita diventa meno attiva ma più interiore, spirituale; la mente, coltivata, può darci emozioni non meno intense di quelle che un corpo prestante ci permette. Però bisogna prepararsi altrimenti l’occasione ci sfugge tra le mani e ci si perde in rimpianti e smarrimento.
Di tutto questo tratta l’ultimo libro di Gabriella Caramore, una raccolta di riflessioni sulla vecchiaia che lei chiama L’età grande (ed. Garzanti); grande non solo, spiega, per gli anni accumulati, ma soprattutto perché è un’età di grandi sfide. La prima, la più importante, è viverla in consapevolezza.
Senza negarla fingendo un inutile, talvolta ridicolo giovanilismo, ma anche senza lasciarsi sommergere dalla tristezza, dai rimpianti o, peggio ancora, dal rancore o dall’invidia per chi è giovane e guarda con speranza al futuro. Floriana Scott-Maxwell (1884-1979), scrittrice, psicologa analista allieva di Jung e autrice di un diario intitolato La misura dei miei giorni (ed. Marietti), scritto attorno agli ottant’anni e citato da Gabriella Caramore, scriveva: «Noi che siamo vecchi sappiamo che la vecchiaia è qualcosa di più che una invalidità. È un’esperienza intensa e varia, certe volte quasi al di sopra della nostra capacità, è qualcosa che bisogna portare con onore».
Lo stesso diceva, in altro modo, James Hillman in La forza del carattere (Adelphi), sottolineando l’importanza degli ultimi anni – non necessariamente pochi – perché chi resta dopo di noi ci ha conosciuti nella nostra vecchiaia e ci ricorderà come siamo stati da anziani. Per questo l’età grande va vissuta con onore e generosità.
La nostra eredità, scrive Hillman, sarà l’esempio che lasceremo, il senso della bellezza del mondo che sapremo trasmettere: «Prima di andarcene, dobbiamo ottemperare alla nostra parte del patto di reciproco sostegno tra gli esseri umani e l’essere del pianeta, restituendo quello che abbiamo preso, assicurandoci che esso duri anche dopo di noi». Per questo, continua, la vecchiaia non è un tempo irrilevante e vuoto, ma sono gli anni necessari affinché possiamo confermare e portare a compimento il nostro carattere.
Gabriella Caramore affronta il tema della vecchiaia con delicatezza e sensibilità, annodando riflessioni personali sul suo avanzare in questa terra necessariamente incognita, muovendosi tra il desiderio di inoltrarsi con fiducia in una stagione del tutto nuova, un tempo di scoperte e di «eroica impotenza», come lo chiama Floriana Scott-Maxwell, e un’inevitabile malinconia per quello che si lascia alle spalle. Soprattutto una nostalgia struggente per le persone amate.
La vecchiaia richiede coraggio e va preparata negli anni che la precedono. Non s’improvvisa e, a dire il vero, non arriva all’improvviso, siamo noi che, prima di vedercela stampata in faccia o di sentirla nelle ossa, ne ignoriamo i segni premonitori. Ci vuole coraggio perché nella vecchiaia, come nell’adolescenza, tutto cambia, fatichiamo a riconoscere e ad accettare le trasformazioni del corpo; anche la mente cambia, siamo più lenti, sembriamo incerti e insicuri.
Adolescenza e vecchiaia sono le stagioni più complesse della vita. La prima, però, affronta sì ostacoli e problemi nuovi, ma lo fa guardando al futuro, con la forza e l’energia che nasce dal tendere verso un obiettivo di vita e di gioia. La vecchiaia, invece, pur essendo una benedizione non concessa a tutti, ha poco futuro davanti, pochi desideri; il tempo diviene, insieme, troppo breve per sognare e troppo lento per entusiasmare.
«Troppo spesso, scrive Caramore, i vecchi avvertono l’inutilità del loro vivere perché non partecipano più all’attività produttiva…Occorre provare a uscire dal gorgo di un pensiero stagnante. Non continuare a chiedersi: “a che cosa servo ora che non ho più un ruolo?”, ma piuttosto “ora che finalmente non ho più un ruolo, come posso ancora raccogliere il senso che la vita forse mi sta offrendo?”.
E considerare come realisticamente possibile – e auspicabile – il passaggio da una vita “piena” a una vita “essenziale”, da una vita “socialmente utile” a una vita “sensatamente inutile”. Come “sensatamente inutile” è la bellezza, la creazione artistica, la musica, la poesia, una carezza, uno sguardo. Inutile. Ma necessaria». Ci vuole molto coraggio per riuscire a vivere una tale libertà.
E ci vuole saggezza. La saggezza che si può acquisire soltanto quando si è consapevoli della propria finitezza, accogliendo la propria irrilevanza serenamente, «imparando a contare i propri giorni», come suggerisce Enzo Bianchi citando il Salmo 89. I vecchi, scrive nel suo libro La vita e i giorni (ed. Einaudi), dovrebbero fare come la civetta, «svegliarsi al crepuscolo della vita e imparare a cantare». Molti lo fanno raccontando quello che hanno imparato, visto e vissuto. Altri proprio durante la vecchiaia sono chiamati ai compiti più importanti che la vita serbava per loro. Lo stesso Bianchi, ormai ottantenne, ha cominciato una nuova esperienza comunitaria dopo avere sofferto il fallimento del suo primo progetto.
Non si dovrebbe parlare di vecchiaia, piuttosto di persone vecchie, sostiene Enzo Bianchi, perché «non esiste la vecchiaia ma ci sono vecchiaie al plurale e soprattutto donne e uomini vecchi ognuno con il proprio tragitto e il proprio esito», con il suo carattere e la sua condizione personale. Ogni vecchiaia è diversa e «le differenze… sono date da un intreccio tra indole individuale e situazione sociale», scrive Gabriella Caramore chiedendosi se vi sia, e quale, differenza tra «l’anziano che ha dietro di sé, o che lascia davanti a sé, figli e figlie, nipoti e pronipoti, e chi invece non ha discendenza», se la vecchiaia sia sentita in modo diverso da un uomo e da una donna: «io credo vi sia una particolare sensibilità femminile alla decadenza del corpo».
Tutti gli autori che abbiamo citato potrebbero sottoscrivere l’idea di Gabriella Caramore che la vecchiaia sia «un tempo che chiede di essere trascorso con consapevolezza, vorrei dire con passione d’amore». Non passivamente, subendo le ingiurie degli anni, come cantava Guccini, ma iniettandovi desiderio di conoscenza e d’intelligenza, perché si tratta di un’epoca della vita che può essere «delusa, talvolta sofferente e disperata.
Ma non vuota». Caramore invita a vivere questo periodo con attenzione e curiosità generosa verso la vita stessa e verso gli altri, a guardare con tenerezza a chi alla vita si affaccia, ad avere cura di quello che resta e a continuare giorno per giorno a «sperare che qualcosa, nel bene, possa ancora accadere».
Nella parte finale, quando l’autrice dal «tempo penultimo» passa a trattare «il tempo ultimo» portando lo sguardo sulla soglia della morte – e lì fermandosi, rifiutando ogni idea consolatoria «di un improbabile aldilà» –, emerge più forte un sentimento di nostalgia per la vita. Si avverte, delicatamente intrecciato nelle parole e nei racconti, come un senso di fatica o di tristezza nell’accettare comunque il destino di doversene andare da un mondo amato. L’atmosfera, in questa parte del libro, richiama i classici latini: «Che si debba morire è un dato di fatto. Che sia un dato di senso non è scontato».
La vecchiaia vissuta consapevolmente si rivela un «tempo penultimo» durante il quale prepararsi, se si può e ognuno come può, all’uscita dal tempo. Pur rifuggendo dalle consolazioni e dalle speranze offerte dalle credenze religiose, quasi foscolianamente (cfr. il carme I sepolcri) si domanda: giacché niente di più certo le ha sostituite, «in virtù di quali certezze contemporanee si dovrebbe togliere loro [ai vecchi] questi moti della mente, visto che l’umanità ha sempre vissuto tra incertezze ed errori?»
Per un cristiano la fine può avere un sapore meno amaro. La fede dà coraggio, scrive Enzo Bianchi, perché gli ultimi tempi della vita diventano «preparativi pasquali» per una speranza folle eppure non irragionevole. Nulla è tolto di fatica, dolore, struggimento nel lasciare la vita e le persone amate, ma la speranza è vera e forte; certo non è vissuta come illusoria consolazione e nemmeno come prodotto della mente.
Uscire dal tempo è un salto nell’ignoto, non necessariamente nel vuoto. Scrive Florida Scott-Maxwell: «Io non so cosa credo della vita dopo la morte; se esiste, brucio dalla curiosità, se no – beh, sono stanca.»
Cantava Guccini: “I vecchi subiscon le ingiurie degli anni/Non sanno distinguere il vero dai sogni/ I vecchi non sanno nel loro pensiero/Distinguer nei sogni il falso dal vero” (Il vecchio e il bambino). Una canzone bellissima, pervasa dalla struggente malinconia di chi guarda un mondo che non riconosce più, perché non è più il suo.
Ma la vecchiaia non è destinata per forza ad essere un tempo fermo e malinconico in cui quasi niente succede, niente di bello almeno. Una specie di attesa più o meno lunga della fine. Sì, spesso è un tempo vuoto di accadimenti, o di responsabilità e riconoscimenti, ma dipende soltanto da noi riempirlo di valore, di cura per tutto quello, e spesso è tanto, che si è trascurato durante la vita attiva. Ecco, la vita diventa meno attiva ma più interiore, spirituale; la mente, coltivata, può darci emozioni non meno intense di quelle che un corpo prestante ci permette. Però bisogna prepararsi altrimenti l’occasione ci sfugge tra le mani e ci si perde in rimpianti e smarrimento.
Di tutto questo tratta l’ultimo libro di Gabriella Caramore, una raccolta di riflessioni sulla vecchiaia che lei chiama L’età grande (ed. Garzanti); grande non solo, spiega, per gli anni accumulati, ma soprattutto perché è un’età di grandi sfide. La prima, la più importante, è viverla in consapevolezza. Senza negarla fingendo un inutile, talvolta ridicolo giovanilismo, ma anche senza lasciarsi sommergere dalla tristezza, dai rimpianti o, peggio ancora, dal rancore o dall’invidia per chi è giovane e guarda con speranza al futuro. Floriana Scott-Maxwell (1884-1979), scrittrice, psicologa analista allieva di Jung e autrice di un diario intitolato La misura dei miei giorni (ed. Marietti), scritto attorno agli ottant’anni e citato da Gabriella Caramore, scriveva: «Noi che siamo vecchi sappiamo che la vecchiaia è qualcosa di più che una invalidità. È un’esperienza intensa e varia, certe volte quasi al di sopra della nostra capacità, è qualcosa che bisogna portare con onore».
Lo stesso diceva, in altro modo, James Hillman in La forza del carattere (Adelphi), sottolineando l’importanza degli ultimi anni – non necessariamente pochi – perché chi resta dopo di noi ci ha conosciuti nella nostra vecchiaia e ci ricorderà come siamo stati da anziani. Per questo l’età grande va vissuta con onore e generosità. La nostra eredità, scrive Hillman, sarà l’esempio che lasceremo, il senso della bellezza del mondo che sapremo trasmettere: «Prima di andarcene, dobbiamo ottemperare alla nostra parte del patto di reciproco sostegno tra gli esseri umani e l’essere del pianeta, restituendo quello che abbiamo preso, assicurandoci che esso duri anche dopo di noi». Per questo, continua, la vecchiaia non è un tempo irrilevante e vuoto, ma sono gli anni necessari affinché possiamo confermare e portare a compimento il nostro carattere.
Gabriella Caramore affronta il tema della vecchiaia con delicatezza e sensibilità, annodando riflessioni personali sul suo avanzare in questa terra necessariamente incognita, muovendosi tra il desiderio di inoltrarsi con fiducia in una stagione del tutto nuova, un tempo di scoperte e di «eroica impotenza», come lo chiama Floriana Scott-Maxwell, e un’inevitabile malinconia per quello che si lascia alle spalle. Soprattutto una nostalgia struggente per le persone amate.
La vecchiaia richiede coraggio e va preparata negli anni che la precedono. Non s’improvvisa e, a dire il vero, non arriva all’improvviso, siamo noi che, prima di vedercela stampata in faccia o di sentirla nelle ossa, ne ignoriamo i segni premonitori. Ci vuole coraggio perché nella vecchiaia, come nell’adolescenza, tutto cambia, fatichiamo a riconoscere e ad accettare le trasformazioni del corpo; anche la mente cambia, siamo più lenti, sembriamo incerti e insicuri. Adolescenza e vecchiaia sono le stagioni più complesse della vita. La prima, però, affronta sì ostacoli e problemi nuovi, ma lo fa guardando al futuro, con la forza e l’energia che nasce dal tendere verso un obiettivo di vita e di gioia. La vecchiaia, invece, pur essendo una benedizione non concessa a tutti, ha poco futuro davanti, pochi desideri; il tempo diviene, insieme, troppo breve per sognare e troppo lento per entusiasmare. «Troppo spesso, scrive Caramore, i vecchi avvertono l’inutilità del loro vivere perché non partecipano più all’attività produttiva…Occorre provare a uscire dal gorgo di un pensiero stagnante. Non continuare a chiedersi: “a che cosa servo ora che non ho più un ruolo?”, ma piuttosto “ora che finalmente non ho più un ruolo, come posso ancora raccogliere il senso che la vita forse mi sta offrendo?”. E considerare come realisticamente possibile – e auspicabile – il passaggio da una vita “piena” a una vita “essenziale”, da una vita “socialmente utile” a una vita “sensatamente inutile”. Come “sensatamente inutile” è la bellezza, la creazione artistica, la musica, la poesia, una carezza, uno sguardo. Inutile. Ma necessaria». Ci vuole molto coraggio per riuscire a vivere una tale libertà.
E ci vuole saggezza. La saggezza che si può acquisire soltanto quando si è consapevoli della propria finitezza, accogliendo la propria irrilevanza serenamente, «imparando a contare i propri giorni», come suggerisce Enzo Bianchi citando il Salmo 89. I vecchi, scrive nel suo libro La vita e i giorni (ed. Einaudi), dovrebbero fare come la civetta, «svegliarsi al crepuscolo della vita e imparare a cantare». Molti lo fanno raccontando quello che hanno imparato, visto e vissuto. Altri proprio durante la vecchiaia sono chiamati ai compiti più importanti che la vita serbava per loro. Lo stesso Bianchi, ormai ottantenne, ha cominciato una nuova esperienza comunitaria dopo avere sofferto il fallimento del suo primo progetto.
Non si dovrebbe parlare di vecchiaia, piuttosto di persone vecchie, sostiene Enzo Bianchi, perché «non esiste la vecchiaia ma ci sono vecchiaie al plurale e soprattutto donne e uomini vecchi ognuno con il proprio tragitto e il proprio esito», con il suo carattere e la sua condizione personale. Ogni vecchiaia è diversa e «le differenze… sono date da un intreccio tra indole individuale e situazione sociale», scrive Gabriella Caramore chiedendosi se vi sia, e quale, differenza tra «l’anziano che ha dietro di sé, o che lascia davanti a sé, figli e figlie, nipoti e pronipoti, e chi invece non ha discendenza», se la vecchiaia sia sentita in modo diverso da un uomo e da una donna: «io credo vi sia una particolare sensibilità femminile alla decadenza del corpo».
Tutti gli autori che abbiamo citato potrebbero sottoscrivere l’idea di Gabriella Caramore che la vecchiaia sia «un tempo che chiede di essere trascorso con consapevolezza, vorrei dire con passione d’amore». Non passivamente, subendo le ingiurie degli anni, come cantava Guccini, ma iniettandovi desiderio di conoscenza e d’intelligenza, perché si tratta di un’epoca della vita che può essere «delusa, talvolta sofferente e disperata. Ma non vuota». Caramore invita a vivere questo periodo con attenzione e curiosità generosa verso la vita stessa e verso gli altri, a guardare con tenerezza a chi alla vita si affaccia, ad avere cura di quello che resta e a continuare giorno per giorno a «sperare che qualcosa, nel bene, possa ancora accadere».
Nella parte finale, quando l’autrice dal «tempo penultimo» passa a trattare «il tempo ultimo» portando lo sguardo sulla soglia della morte – e lì fermandosi, rifiutando ogni idea consolatoria «di un improbabile aldilà» –, emerge più forte un sentimento di nostalgia per la vita. Si avverte, delicatamente intrecciato nelle parole e nei racconti, come un senso di fatica o di tristezza nell’accettare comunque il destino di doversene andare da un mondo amato. L’atmosfera, in questa parte del libro, richiama i classici latini: «Che si debba morire è un dato di fatto. Che sia un dato di senso non è scontato». La vecchiaia vissuta consapevolmente si rivela un «tempo penultimo» durante il quale prepararsi, se si può e ognuno come può, all’uscita dal tempo. Pur rifuggendo dalle consolazioni e dalle speranze offerte dalle credenze religiose, quasi foscolianamente (cfr. il carme I sepolcri) si domanda: giacché niente di più certo le ha sostituite, «in virtù di quali certezze contemporanee si dovrebbe togliere loro [ai vecchi] questi moti della mente, visto che l’umanità ha sempre vissuto tra incertezze ed errori?»
Per un cristiano la fine può avere un sapore meno amaro. La fede dà coraggio, scrive Enzo Bianchi, perché gli ultimi tempi della vita diventano «preparativi pasquali» per una speranza folle eppure non irragionevole. Nulla è tolto di fatica, dolore, struggimento nel lasciare la vita e le persone amate, ma la speranza è vera e forte; certo non è vissuta come illusoria consolazione e nemmeno come prodotto della mente. Uscire dal tempo è un salto nell’ignoto, non necessariamente nel vuoto. Scrive Florida Scott-Maxwell: «Io non so cosa credo della vita dopo la morte; se esiste, brucio dalla curiosità, se no – beh, sono stanca.»