Uno dei termini più volte utilizzato da Giorgia Meloni per descrivere la sua manovra è “seria”.
Termine che di solito la Presidente del Consiglio ha inserito in una retorica sul senso di responsabilità. La situazione non è rosea, d’altronde.
L’economia europea sta subendo un rallentamento, probabilmente a causa della stagnazione dell’economia in Cina e dell’effetto LAG dell’aumento dei tassi da parte della Banca Centrale Europea- prescindendo dagli effetti sull’inflazione. Il tasso di crescita del PIL in area euro era previsto allo 0.9% a giugno mentre le previsioni di settembre sono dello 0.7%
Anche quella italiana ne sta risentendo: nonostante le stime della Commissione Europea per il 2023 continuino a restare positive (allo 0.9%), con un calo di 0.3% rispetto alle precedenti, nel trimestre appena passato il PIL ha mostrato una lieve flessione dello 0.4% su base congiunturale- cioè rispetto ai tre mesi precedenti. I mercati mostrano già segni di preoccupazione, con il rendimento del decennale che segna un record da 10 anni a questa parte.
Meloni, che è lì per restare, vuole evitare a tutti i costi le scene viste nel 2012 con il Governo Berlusconi IV (in cui Meloni era ministra), la crisi dello spread e l’arrivo del governo tecnico di Mario Monti. Per questo non sono mancati momenti di tensione con gli alleati, in particolare con Matteo Salvini, le cui dichiarazioni non sono mai ponderate, per usare un eufemismo. Sarebbe meglio consultarsi, avrebbe detto Meloni a Salvini, riguardo le promesse che sarà difficile mantenere.
Che cosa c’è quindi nella manovra?
Il taglio del cuneo fiscale: l’usato spacciato per nuovo
Il primo provvedimento per importanza tra quelli voluti dal governo di Giorgia Meloni è il rinnovo del taglio del cuneo fiscale. Stiamo parlando, cioè, del rapporto tra il quantitativo di imposte pagate da un singolo lavoratore medio senza figli e il totale del costo del lavoro, seguendo la definizione fornita dall’OECD. Come mostra il grafico, l’Italia presenta un elevato cuneo fiscale.
Se già da prima il cuneo fiscale era sulle labbra di qualunque politico, additato a grande male che affossa la crescita del paese, gli ultimi anni ne hanno visto una centralità ancora maggiore. L’inflazione ha eroso i salari reali, cioè quelli che misurano quanti beni una persona può acquistare, e gli Stati hanno dovuto trovare strategie per sostenerli.
Tra le soluzioni più semplici c’è proprio il taglio del cuneo fiscale. In Italia, già il governo Draghi era intervenuto con un taglio del cuneo, di fatto un’esenzione dei contributi a carico del lavoratore, e il governo Meloni aveva seguito le orme sia con la manovra dell’anno scorso sia con il Decreto Lavoro.
Con questa manovra, è importante sottolinearlo, il Governo Meloni non si è trovato a tagliare il cuneo fiscale, cosa che aveva già fatto nella precedente, quanto a trovare le risorse per confermarlo.
Si potrebbe pensare a una riforma di più ampio respiro e di natura sistemica, che tagli il cuneo fiscale spostando però il peso della tassazione su altro, ad esempio la rendita. Questo non risolverebbe i problemi del paese, ma eviterebbe in larga parte di dover passare l’ultima parte dell’anno a caccia di risorse per riconfermarlo. Proprio questa sembra invece la strada scelta dal governo Meloni, impegnato a trovare le risorse (poi vedremo che è vero a metà) per confermare il taglio: fino a sette punti per chi ha redditi fino a 25mila euro, di sei punti per chi ha redditi fino a 35mila euro.
Ciò significa che nel 2024, se il governo vorrà riconfermare il taglio dovrà trovare altre risorse, ma soprattutto che oggi i lavoratori non vedranno un aumento della busta paga.
Vediamo due aspetti problematici di questa misura, con particolare attenzione al contesto odierno. Il primo, proprio perché si tratta di una misura temporanea, è il ruolo fondamentale giocato dall’incertezza. Immaginiamo una famiglia a basso reddito che vuole sostenere una spesa consistente come l’acquisto di una buona lavatrice che duri per anni. Essendo una spesa consistente, la famiglia ha bisogno di sapere se disporrà dei soldi derivanti dal taglio del cuneo fiscale oppure no. Procedere quindi con questi interventi temporanei avrà sì l’effetto di garantire una maggior stabilità alle famiglie a basso reddito, ma si tratta di una tregua temporanea in un paese in cui i redditi sono stagnanti da decenni.
Il secondo aspetto è il costo del cuneo fiscale. Poiché il fine è sostenere i redditi più bassi, c’è un altro strumento che fa parte della strategia per alleviare il problema: il salario minimo. Ma su questo il governo Meloni ha giocato d’astuzia. Consapevole che il tema smuove gli italiani, non ha potuto fare una battaglia plateale contro il salario minimo. E quindi il governo ha richiesto un parere tecnico al CNEL che nei giorni scorsi ha dato responso negativo sull’introduzione di un salario minimo legale nel nostro paese. Non deve sorprendere: alla guida del CNEL c’è Renato Brunetta, secondo cui il salario minimo danneggerebbe il sistema di relazioni industriali che ha caratterizzato il nostro paese.
Ma anche il rapporto del CNEL non è del tutto positivo per il governo. Certo, c’è una relazione tecnica che permette di contrapporsi alla proposta di Schlein, Conte e Calenda, ma perfino il rapporto è costretto a rimarcare l’evidente, notando che effettivamente una crisi dei redditi in Italia c’è e che servono strumenti, tra cui un rafforzamento della contrattazione collettiva e il contrasto ai contratti pirata. Nella manovra però tutto questo è assente. C’è il rinnovo dei contratti scaduti, come per la pubblica amministrazione e la sanità, ma non in settori ad elevata povertà lavorativa.
La soluzione di Meloni al problema della povertà lavorativa e al calo del potere d’acquisto delle famiglie a basso reddito sembra quindi passare da una misura che ha costi ingenti e che non sappiamo quanto durerà. Le altre vie non sono all’ordine del giorno per il governo.
IRPEF: il rischio di un intervento distorsivo
Il secondo provvedimento più importante della manovra è sicuramente l’accorpamento delle prime due aliquote IRPEF. L’intenzione del governo Meloni è di accorpare i contribuenti che ora rientrano nel secondo scaglione (aliquota marginale al 25%) nel primo scaglione (aliquota al 23%). Si tratterebbe quindi di un provvedimento che interesserebbe prevalentemente chi ha un reddito compreso tra i 15 e i 28 mila euro.
A questa modifica si aggiunge un aumento della soglia della no tax area per i lavoratori dipendenti, equiparandola a quella applicata ai pensionati: si passerebbe quindi da 8,145 a 8,500 euro. Secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, questo comporterebbe un aumento annuo in busta paga tra i 100 e 260 euro, rispettivamente per chi si trova nel secondo scaglione accorpato al primo e per quelli più elevati. Potrebbe sembrare una contraddizione: perché un taglio delle tasse sui redditi dei dipendenti più bassi porta a maggiori vantaggi per i redditi più alti?
Come tutti i sistemi fiscali occidentali, anche quello italiano è progressivo. I primi X euro guadagnati vengono tassati a una certa aliquota, gli euro da X a Y a un’aliquota superiore, e così via. Un provvedimento che va a cancellare uno scaglione, quindi, riduce il prelievo anche per chi guadagna di più perché sui soldi guadagnati nell’intervallo su cui si è abbassata l’aliquota vi sarà un risparmio.
È un sistema che può sembrare estremamente laborioso. Ma serve in realtà a tenere assieme le tre funzioni che gli studiosi della tassazione dei redditi considerano centrali. Abbiamo il gettito, ovvero quanto denaro lo Stato può raccogliere attraverso l’imposta. Poi c’è l’equità, che riguarda il sistema fiscale e quanto sia ritenuto più o meno equo. Infine ci sono gli effetti che il sistema fiscale ha sull’offerta di lavoro, ovvero quanto decidono di offrire all’azienda i lavoratori in base al salario.
Vale la pena soffermarci su questo aspetto, con un esempio. Immaginiamo un lavoratore che guadagna poco meno di 28 mila euro. Gli viene offerto un cambio di mansione che, a fronte di una maggior responsabilità, aumenta il suo salario oltre i 28 mila, facendogli quindi cambiare scaglione. Il lavoratore si troverà quindi costretto a fare una scelta: vale la pena accettare l’aumento di stipendio e gli oneri della nuova mansione?
Il problema di come è organizzato il sistema fiscale è appunto questo: il lavoratore, passando da uno scaglione all’altro con un conseguente aumento delle tasse, potrebbe ritenere che non convenga cambiare mansione, per un guadagno così esiguo cui si accompagnano molti più oneri. Tutto dipende quindi da quanto è brusco il passaggio da uno scaglione all’altro.
Il problema della proposta Meloni risiede proprio in questo aumento sproporzionato tra le due aliquote che definiscono gli scaglioni. Già prima delle varie riforme che si sono succedute nel corso degli anni gli esperti avevano indicato il problema riguardante proprio lo scaglione tra i 28mila e i 55mila euro.
Infatti, in un articolo pubblicato sul blog economico LaVoce.Info i due esperti di Scienza delle Finanze Massimo Baldini e Leonzio Rizzo avevano sottolineato come tra lo scaglione dei 28 mila euro e quello dei 55 mila euro vi siano ben 11 punti percentuali di differenza. Dopo aver illustrato due proposte di riforma, ormai obsolete visti gli interventi IRPEF fatti in questi anni, Baldini e Rizzo concludono:
Non si tratta ovviamente di una proposta di riforma complessiva dell’Irpef, perché rimedierebbe solo a un evidente difetto del sistema attuale, che vede un salto troppo elevato di aliquota tra secondo e terzo scaglione. Ma sarebbe un primo passo, sostenibile, nella direzione giusta.
Già prima, quindi, il sistema italiano presentava degli scaglioni non ottimali. Ma con la riforma Meloni si aumenta in realtà la differenza, portandola a dodici punti percentuali, di nuovo al netto degli interventi svolti nel corso degli anni. È quindi probabile che questo abbia degli effetti sulle decisioni dei lavoratori e sull’offerta di lavoro, scoraggiando ad esempio gli aumenti di stipendio che farebbero passare da uno scaglione all’altro.
Siamo di fronte a un problema che la ricerca economica ha ben compreso: gli incentivi politici contro quelli economici. L’intervento in sé è un taglio delle imposte per la classe lavoratrice e medio-bassa, un bacino a cui puntano sia Fratelli d’Italia e Lega, ma- per quanto visto ora- questo stesso intervento rischia di distorcere ancora di più il sistema.
Il nodo sanità: quello che sappiamo finora non è una buona notizia
Nella manovra anche il nodo sanità che aveva fatto nascere un acceso dibattito. La leader del Partito Democratico Elly Schlein, infatti, aveva accusato il Governo di tagli alla sanità. Meloni invece ha risposto aumentando di 3 miliardi il fondo sanitario nazionale.
Questo tipo di discussione però rischia di far perdere di vista i punti fondamentali: la discussione sui fondi alla sanità infatti è estremamente tecnica e ci sono dati per sostenere ogni tesi. La spesa per la sanità su PIL, ad esempio, diminuisce. Ma poi la realtà è un po’ più complessa.
A farlo notare su Fanpage è Pierino di Silverio, segretario di ANAAO-Assomed. Innanzitutto è necessario chiarire che dei 3 miliardi la maggior parte andrà a finanziare il rinnovo dei contratti di settore. Ma legare questi contratti alle liste d’attesa, come fatto da Meloni in conferenza stampa, è quantomeno bizzarro: sembrerebbe quasi suggerire che le liste d’attesa dipendano dai medici che non lavorano abbastanza.
Bisognerà poi capire meglio, e questo avverrà nei prossimi giorni, quanto il tentativo di abbattere le liste d’attesa vada di pari passo con il coinvolgimento con il privato. Si tratta di un errore che la pandemia avrebbe dovuto insegnarci, ma forse non è così. Esternalizzare al privato, fa notare l’economista del settore pubblico Rosie Collington, è estremamente dannoso perché rischia di sottrarre conoscenze al settore pubblico.
Il problema delle coperture: troppo ottimiste, mentre il debito resta alto
A lasciare ancora più perplessi sono le coperture della manovra, in un periodo estremamente complicato: come faceva già notare ad agosto Riccardo Trezzi, poiché la banca centrale ha alzato i tassi di interesse siamo costretti a pagare agli investitori rendimenti record da 10 anni a questa parte, tra il 4% e il 5%.
La manovra di per sé vale 24 miliardi. Di questi, 15.7 miliardi saranno a debito, un debito che costerà molto più caro rispetto a quello di anni fa. Come spiega il giornalista economico Vittorio Malagutti su Domani, a pesare sono soprattutto i due interventi cardine, cuneo e IRPEF. Le coperture dovrebbero arrivare dall’aumento del gettito dovuto alle accise sui carburanti, dalla Global Minimum Tax al 15% che entra in vigore quest’anno e dalla spending review lineare del 5% delle spese discrezionali. Ma mancano comunque 8 miliardi, e i numeri del governo sono ottimisti.
Il ricorso massiccio al debito, fa notare il giornalista economico Massimo Taddei, rischia di fare perdere al governo l’occasione dell’effetto palla di neve. Com’è noto, non si misura il debito nominale (quanti soldi lo stato ha preso in prestito e deve ridare) ma in rapporto al PIL. In questo momento, data l’ancora elevata inflazione, il PIL nominale cresce molto velocemente, andando così ad aumentare il denominatore della frazione e quindi, se il deficit rimane più o meno uguale, andrebbe a diminuire il rapporto debito PIL. Ma la NADEF mostra che il governo è intenzionato a vanificare questo effetto. Il debito infatti resterà intorno al 140%, nonostante il tasso di crescita del PIL nominale sia al 5.3%. Questo perché la spesa al netto degli interessi, cioè l’avanzo primario, resterà elevato al -1.5%.
Una manovra non molto seria
L’analisi portata avanti fin qui suggerisce che la manovra della serietà di Meloni si scontra con i vincoli politici ed elettorali. Ovviamente ci sono delle buone proposte: agevolazioni per donne lavoratrici, asilo nido gratis per il secondo figlio (ammesso che ci siano gli asili nido, visto che l’Italia sul tema è tra i fanalini di coda in Europa), tassazione agevolata per le aziende che riportano la produzione nel paese. Ma le misure principali sono tutt’altro che positive, soprattutto alla luce delle coperture.
Non mancano poi i problemi dal punto di vista meramente istituzionale. Come fa notare il leader di Più Europa Riccardo Magi, ma anche il quotidiano Domani, la Presidente del Consiglio ha invitato i parlamentari di maggioranza a non presentare emendamenti per non mostrare la fragilità nascosta da serietà di cui fa sfoggio il Governo.
Senza più il tesoretto lasciato da Draghi, la prima vera manovra di Meloni dispiega troppe risorse per proposte che non avranno un impatto così forte sulla crescita, pur essendo riuscita a fermare le anime più irresponsabili della maggioranza. Se quindi non ci si trova davanti una manovra che rischia di scatenare i mercati e mettere in seria difficoltà il paese, allo stesso tempo le proposte messe in campo per affrontare il carovita sono o di poco impatto o rischiano addirittura di essere dannose.