È ormai certo: il memoriale equestre del Presidente americano Theodore Roosevelt (1858-1919) verrà rimosso dallo scalone antistante l’American Museum of Natural History (AMNH) di New York, visitato da quasi cinque milioni di persone ogni anno.
La notizia non giunge inattesa: da settimane si moltiplicano gli appelli per rimuovere vari monumenti, da settimane circolano immagini di statue imbrattate o fisicamente rimosse dai Comuni. Issate in pompa magna, con cerimonie ufficiali, vengono smantellate quasi furtivamente nel cuore della notte, sbullonate davanti agli sguardi e ai cellulari degli astanti.
E tra questi due brevi momenti – l’elevazione e la rimozione – la statua vive in un limbo di sovrana indifferenza, in uno stato larvale che può protrarsi per secoli. Finché un soffio di vento riattizza la fiamma affievolita della storia, come dimostra il caso Roosevelt su cui è utile tornare oggi in Italia.
La statua della discordia
Il memoriale equestre è commissionato nel 1925 e installato nel 1940, finanziato pubblicamente (per un costo totale di tre milioni e mezzo di dollari) e quindi di proprietà della città e non dell’AMNH. Rappresenta Roosevelt pronto per una battuta di caccia, mano destra sulla pistola e sguardo fiero all’orizzonte. È scortato da due figure stereotipate e svestite: un indigeno delle Grandi pianure alla sua destra e un africano alla sua sinistra, forse un Masai o un Samburu che vivevano in un terra oggi divisa tra Kenya e Tanzania. Nella logica fallica dei monumenti, elevazione è potere: in sella al cavallo, Roosevelt domina le altre due figure, allo stesso modo in cui noi osserviamo dal basso verso l’alto quest’uomo imperturbabile, esempio di virtù e modello per le generazioni future.
Il nativo americano e l’africano non hanno un nome, sono lì non come esseri umani ma come simboli … leggi tutto