di Guia Soncini
Maschile sovresteso
La giornalista ha detto che cinquant’anni fa Giulia Cecchettin avrebbe rinunciato alla laurea e optato per il matrimonio, ma in realtà il 1973 era un’epoca di grande emancipazione rispetto al bacchettonismo attuale
«La mia idea di come dovrebbe essere una coppia? Io non ho un’idea di come dovrebbe essere una coppia, a me non frega un cazzo della coppia». Sandra Voyter forse ha ammazzato il marito, forse è diventata una scrittrice di successo saccheggiando le sue idee, forse è una madre anaffettiva, una bisessuale fedifraga, una schifezza di donna.
Tuttavia, quando nella seconda metà di “Anatomia di una caduta” il film smette per qualche minuto d’essere una rievocazione di scene che non vediamo, e diventa l’ultimo litigio tra i due coniugi prima della morte di lui, in quei minuti che sembrano usciti da una pièce di Yasmina Reza, è solo allora che Sandra Voyter si condanna alla disapprovazione di massa dicendo l’indicibile: non le importa nulla del totem cui è devoto il nostro secolo.
Ho un amico che è la persona più normale che conosca: è medio come padre, medio come professionista, medio come divorziato. Qualche tempo fa, la signora con cui si vedeva ha iniziato a rinfacciargli cose che non poteva sapere.
Me l’ha raccontato tardivamente, altrimenti gli avrei detto che probabilmente nella sua relazione stava succedendo una cosa media, che accade più o meno in tutte le relazioni di questi anni: quando dormi, o sei nella doccia, la persona con cui ti accoppi ti prende il telefono e guarda i messaggi, e nei messaggi c’è tutta la tua vita, ci sono tutti i tuoi segreti (che evidentemente tanto segreti non sono).
Me l’ha raccontato quando era già entrato in un abisso di paranoia, era già andato a parlare con esperti di sicurezza informatica, si era già convinto che nel suo telefono lei avesse inserito un virus che doppiava i messaggi mandandoli in copia a lei, e rendendo la vita di lui priva di segreti. Aveva cambiato la sim e il telefono, giacché gli esperti – ai quali storie analoghe vengono raccontate ogni minuto – gli avevano detto che non c’era modo d’esser sicuri che il telefono fosse bonificato una volta infettato.
Non vi sto raccontando questa storia per dirvi «ah, se l’avesse fatto un uomo a una donna, di spiarle il telefono con mezzi illegali, apriti cielo». Ve la sto raccontando per dirvi che, mentre il mio amico mi diceva ti rendi conto, sono stravolto, che angoscia, io pensavo (e a un certo punto gli ho anche detto): sì, ma pensiamo a lei.
Pensiamo alla vita d’inferno di questa tizia che passa le sue giornate a leggere messaggi altrui, a investire tempo ed energie nell’illusorio tentativo di sapere cosa succede in sua assenza, a frustrarsi con le vite degli altri. Pensiamo a come la mistica della coppia le ha rovinato il cervello, a quest’adulta.
Che sia adulta è per me la discriminante: a trent’anni lo facevo anch’io, quindi mi pare normale. Era meno impegnativo, giacché quando avevo trent’anni tutto quel che potevi fare per illuderti di avere il completo controllo di eventuali tradimenti era scoprire il codice segreto della segreteria a cassette di casa di qualcuno, e chiamare e ascoltare cosa gli avevano lasciato detto nel telefono di casa. Il controllo completo, ai tempi miei, era assai incompleto.
Uno dei primissimi articoli che scrissi, a ventott’anni, era su un saggio americano intitolato “Here comes the bride – Women, weddings, and the marriage mystique”. Non so cos’avessi scritto – erano anni in cui i giornali non mettevano i pezzi sull’internet, ed era una quindicina di miei computer fa – ma sono certa che fosse impreciso, giacché scritto prima che il fenomeno ci riguardasse.
La mistica del matrimonio, più di vent’anni fa, era un’americanata. Solo nei film americani vedevamo il pathos dell’attesa dell’anello, la proposta intorno alla quale venivano costruite intere stagioni della vita di lei, il concetto di bridezilla, cioè della sposa che impazzisce e per un anno pensa solo ai canapé e alle bomboniere.
Poi c’è stata l’americanizzazione del mondo, e assieme a essa il contraccolpo rispetto all’emancipazione. Quando Susan Faludi pubblicò “Backlash: The undeclared war against American women” (in Italia tradotto come “Contrattacco”) era il 1991, e nessuno – nemmeno lei – aveva idea della direzione in cui stavamo andando. Quella in cui non c’era bisogno di nessuna guerra, giacché le donne erano determinate a rimandarsi in cucina da sole.
Sui social in questi giorni gira molto un minuto di Lucetta Scaraffia che, ospite di Stasera Italia, dice che cinquant’anni fa Giulia Cecchettin quel ragazzo l’avrebbe sposato, e in quel modo lui non sarebbe diventato il suo assassino. I social, specialisti nel mancare il punto, sono indignati all’idea che per non farti ammazzare tu debba assoggettarti a un matrimonio, e nessuno nota il dettaglio dirimente.
Cinquant’anni fa era il 1973. C’era il post-68, c’era il femminismo, c’era il divorzio, ancora non c’era l’aborto legalizzato ma c’erano le donne che proprio non ci pensavano a non laurearsi per fare le mogli. Persino mia madre, che pure era la meno emancipata del mondo, si rifiutava di cucinare perché le sembrava una cosa da donna poco moderna. Persino mia nonna, che era una vedova molisana che non si toglieva il lutto dal 1950, non una californiana col dottorato di ricerca, aveva mandato all’università la femmina proprio come il maschio.
Nella confusione generalizzata che affligge i ragionamenti di questo nostro tempo, diciamo «cinquant’anni fa» e pensiamo di parlare del film della Cortellesi e della figlia femmina cui il padre si rifiuta di pagare la frequentazione delle scuole medie. Ma, nel secolo breve e in realtà lunghissimo, le cose cambiavano molto in fretta, e tra ottant’anni fa e cinquant’anni fa ci sono secoli di differenza.
Cinquant’anni fa è quando nasceva la mia generazione, quella che i diritti se li era trovati pronti e quindi poteva avviare il tempo dei capricci. Guardo le immagini dei liceali nei corridoi perché hanno ammazzato Giulia Cecchettin, e vedo in loro il comprensibile sollievo di perdere due ore di lezione, come quando a noi diciassettenni facevano guardare un film storico invece d’interrogare, o scioperavamo con un qualsivoglia pretesto; negli adulti di oggi, determinati a interpretarla come una manifestazione di sensibilità, vedo il disastro della mia stupidissima generazione.
I giornalisti italiani, che non si capisce cosa tengano a fare i social nel telefono se poi dei fenomeni social si accorgono sempre in ritardo, in questi giorni scoprono i video in cui alle giovani coppie viene chiesto «Lasceresti andare la tua ragazza a ballare da sola?», e i maschi rispondono no e le femmine tacciono.
Poiché il framing del momento è «uomini bruti e donne sottomesse», quei video vengono letti in quell’ottica, e non in quella che conosce chiunque ogni tanto si affacci sul paese reale: le donne vogliono che lui sia possessivo (e spesso lo sono anche loro), vogliono che controlli loro il telefono (e spesso lo fanno anche loro), vogliono che il mondo sappia che loro non sono la zitella al pranzo di Natale, non sono la rimastona che nessuno si è preso, loro sono una coppia, loro hanno dignità di obiettivo raggiunto, le donne e gli uomini hanno come priorità il far sapere al mondo che non hanno il difetto d’essere scompagnati.
E non è, come fa comodo inquadrarla in questo momento, una questione di gioventù. Non è esclusiva dei ventenni geolocalizzare il telefono della persona con cui si sta, spiarne i messaggi, ostentare il senso del possesso che fu prealessandrino.
La massa degli uomini conduce vite di silenziosa disperazione, scriveva Thoreau quando, duecento anni fa, si poteva ancora usare il maschile sovresteso. Il mio osservatorio sulla silenziosa disperazione sono i gruppi Facebook al femminile, in uno dei quali qualche anno fa una signora adulta depositò il proprio nervosismo verso la mezzanotte.
Il marito era uscito per una birra con gli amici, non lo faceva mai, e ora non era ancora tornato, e lei cosa doveva fare. Le arrivavano varie rassicurazioni, e il giorno dopo ella aggiornava le convenute. Il marito era tornato verso le due, ma era molto allegro e sereno, e lei aveva capito che forse uscire non in coppia poteva essere una bella cosa, e ora, nientemeno, stava pensando di farlo anche lei.
Ma, convenivano tutte, non in discoteca, perché va bene tutto ma ballare con qualcuno che non è il legittimo coniuge è invero inaccettabile. Sono passati sessantadue anni da «con te, che sei la mia passione, io ballo il ballo del mattone», e abbiamo inserito la retromarcia.
Non è mai bello prendere il commento più stupido e usarlo per dimostrare qualcosa, ma lo farò comunque. L’altro giorno ho scritto che l’educazione sentimentale è una scemenza che serve a non dire che l’istinto della sopraffazione del più forte sulla più debole non è curabile. Ho ricevuto pochi commenti scemi, uno dei quali mi ha fatto tornare in mente la più illuminante interazione che abbia avuto su Twitter.
La ragazza che mi scriveva l’altro giorno, a occhio una ventenne di sinistra, diceva che avevo scritto così perché ero una «pick-me girl», espressione che sta per «una che farebbe di tutto per compiacere gli uomini» e che lei usa senza sapere da dove viene (da una puntata di “Grey’s Anatomy” in cui Meredith pregava Derek di scegliere lei e non la sua allora moglie).
Mentre archiviavo il commento della ragazza nel faldone «una generazione che non concepisce che a qualcuna possa non fregar niente di far colpo sugli uomini», mi sono ricordata del tizio di qualche mese fa, a occhio un adulto di destra eppure perfetto alleato della ragazza.
Avevo scritto che l’assurdità non è la gestazione per altri ma che qualcuna si sobbarchi una gravidanza gratis. Questo tizio mi aveva scritto che cercavo di spacciare per scelta il mio non aver avuto figli, lacuna che invece dipendeva evidentemente dal mio essere troppo cessa perché qualcuno si sacrificasse a ingravidarmi.
È un argomento che mi diverte sempre molto, questa convinzione che l’accoppiamento sia un privilegio esclusivo dei belli: un po’ perché mi chiedo come chi lo porta avanti pensi che siamo diventati otto miliardi sul pianeta; un po’ perché chiunque abbia avuto anche solo un paio di relazioni sa che non si sta con qualcuno per come quel qualcuno è, ma per come fa sentire noi, e in quest’ottica l’aspetto che questo qualcuno ha è un elemento invero minore.
A quel punto però lo scambio ha preso una piega inaspettata (grande festa: se frequentate i social, sapete che essere sorprendenti non è esattamente il loro specifico). Il tizio mi ha spiegato che non esistono donne che non abbiano avuto figli per scelta. Se non hai figli o sei sterile e ci hai provato invano, o sei una con cui nessuno ha voluto figliare (rivoglio subito tutti i soldi buttati in quasi quarant’anni d’anticoncezionali).
Il tizio è un’eccezione beghina? Secondo me no. Secondo me il tizio è la deriva probabilmente cattolica della tizia che si percepisce di sinistra e non riesce a concepire che qualcuna pensi perché è pagata per pensare, e non per ottenere qualsivoglia reazione dal mondo maschile.
È una società che sa pensarsi solo in coppia in ogni suo strato anagrafico e politico, e con questa premessa non mi meraviglia poi tanto se qualche volta ci scappa il morto al cinema, e la morta nella realtà.
E quindi tutto questo lunghissimo sbrodolamento serve a dire a Lucetta Scaraffia, a Twitter, a Nicola Porro, a chi va a vedere il film della Cortellesi e pensa sia sensato ragionare delle donne oggi come se il problema fosse l’accesso al suffragio, a chi “Anatomia di una caduta” non lo vedrà e quindi non potrà trattenere il respiro di fronte a quel manifesto d’indifferenza alla coppia, che no, nel 1973 la Cecchettin non avrebbe sposato il suo assassino, perché nel 1973 accadeva che una donna pensasse che a lei della coppia non fregava un cazzo; e, se oltre a pensarlo lo diceva, la platea non sussultava come di fronte a una bestemmia.
Erano emancipati, cinquant’anni fa. Mica come ora.