Silenzi che pesano (corriere.it)

di Paolo Mieli

Gli stupri di Hamas

Sulla manifestazione romana contro i femminicidi e più in generale ogni forma di violenza sulle donne, ha già scritto ieri su queste colonne Barbara Stefanelli. Un articolo memorabile. A maggior ragione per il fatto che, ad occhio, le partecipanti erano ben più di quelle cinquecentomila delle stime ufficiali: probabilmente un milione.

Resta però il dettaglio della mancata menzione — da parte delle organizzatrici — del più clamoroso stupro di massa dei nostri tempi: quello consumato, il 7 ottobre, dai terroristi di Hamas a danno di donne d’Israele. Amplificato, quel mancato riferimento, dall’esplicita adesione della manifestazione alla lotta «contro il genocidio di uno Stato colonialista nei confronti di Gaza».

E della presenza al grande raduno di donne del Movimento degli studenti palestinesi. Con tanto di slogan e bandiere. Le bandiere di Israele invece non erano ammesse. Anche se le rappresentanti dell’associazione «Non una di meno» — bontà loro — hanno concesso una sorta di diritto alla presenza di singole cittadine israeliane. Senza segni di identificazione, beninteso.

La filosofa Adriana Cavarero (intervistata su queste pagine da Elisa Messina) ha manifestato «imbarazzo» per queste scelte, frutto, a parer suo, di una «deriva ideologica» delle organizzatrici. Far riferimento ai palestinesi «senza citare i crimini di Hamas», ha sottolineato Cavarero, «è un errore storico, è divisivo dal punto di vista politico ed è sbagliato anche dal punto di vista femminista».

Soprattutto dopo che la storica Tamar Herzig, su «Haaretz», ha descritto particolari agghiaccianti delle violenze inflitte, il 7 ottobre, a decine, centinaia di donne israeliane. La sorpresa è stata che nell’intera sinistra italiana a condividere le idee di Cavarero siano state in poche, davvero molto poche: l’europarlamentare Pina Picierno, la senatrice Valeria Valente (entrambe del Pd), Lucia Annunziata (sulla «Stampa») e un numero esiguo di altre.

Discorso questo che, ovviamente, non include le dirigenti delle comunità ebraiche italiane sulle cui spalle ricade abitualmente l’intero peso della denuncia di crimini antisemiti a meno che non siano perpetrati da neonazisti o consimili. Più in generale la sinistra del nostro Paese si distingue per l’estrema disponibilità a rendere omaggio alle vittime della Shoah e l’altrettanto grande capacità di distrarsi nel caso in cui gli israeliti siano vittima di qualcuno che provenga dal mondo arabo e musulmano.

In parte è così anche in molti Paesi occidentali. Ma almeno questi altri Paesi possono vantare comunità intellettuali orgogliose di opporsi alla marea montante di un pregiudizio che induce a sottostimare le manifestazioni antisemite che non siano dell’estrema destra. In Francia proprio in questi giorni il quotidiano che rappresenta la gauche più radicale, «Libération», ha pubblicato, su iniziativa dell’associazione «Paroles de femmes», un appello dal significativo titolo «Per il riconoscimento del femminicidio di massa del 7 ottobre in Israele».

Da noi un appello del genere non c’è stato. E a questo punto ci sentiamo costretti all’umiliante precisazione che — con buona pace di Naomi Klein e dei mille firmatari di un suo manifesto — nessuno di coloro che hanno scritto la lettera a «Libération», né le poche persone che in Italia hanno denunciato le selvagge violenze del 7 ottobre, considera manifestazione di antisemitismo una qualsiasi critica a Netanyahu. Nessuno. Proprio nessuno.

Sempre su «Libération» il fondatore del giornale, Serge July, ha allargato questo discorso con un’interessante considerazione: anche per effetto di quel che abbiamo descritto stiamo entrando in un mondo in cui «tutto è permesso». L’aggressione non è più un misfatto. Quella che ancora nel febbraio del 2022 poteva essere considerata alla stregua di un’eccezione, sta assumendo il valore di regola.

Due date che avrebbero dovuto passare alla storia come giorni «d’aggressione» — 24 febbraio (attacco della Russia all’Ucraina) e 7 ottobre (azione terroristica di Hamas contro civili israeliani) — sono state immediatamente «contestualizzate», riassorbite per intero dagli accadimenti anteriori e dagli eventi successivi. Quello che per gli storici è un «dovere» (riconsiderare gli eventi nel loro contesto sulla base di nuovi documenti che consentono di definirlo meglio, quel contesto) è stato sottratto agli studiosi.

Per essere utilizzato dai contemporanei al fine di ridimensionare la portata dell’accaduto. Sulla base di criteri che, usati nella stessa maniera, avrebbero reso privo di alcun valore il 1° settembre 1939, quando Adolf Hitler aggredì la Polonia in quella che è stata considerata fino ad oggi la data d’inizio della Seconda guerra mondiale.

La riammissione di Putin in un consesso internazionale (sia pure, per cautela, in videoconferenza) accompagnata dal coro che si è levato per ridimensionare l’aggressione di Hamas a Israele, ha avuto l’effetto di ingenerare nel senso comune la sensazione che il 24 febbraio del 2022 e il 7 ottobre del 2023 non siano date meritevoli di un ricordo a sé. Giornate drammatiche, certo, ma prive di alcun valore significante. L’atto dell’aggressione è pressoché scomparso.

E in tale direzione le manifestazioni di sabato scorso hanno offerto in piccola parte il loro contributo.

(Peter Herrmann)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *