Sinistra e Ucraina scoprirsi (adesso) pacifisti (corriere.it)

di Paolo Mieli

Da settimane, ormai, le cose si sono messe 
male per Zelensky. 

Kiev viene bombardata con una certa regolarità, i soldati ucraini hanno perso Marinka, sono prossime a cadere anche Avdiivka e Kupiansk compromettendo definitivamente l’offensiva militare del generale Zaluzny.

Stati Uniti ed Europa, entrambi in un anno elettorale, lesinano armi e fondi. «Se il mondo si stanca di sostenerci», ha dichiarato alla Bbc la first lady Olena, «ci lascerà semplicemente morire».

E molti nella parte più stolta dell’Occidente si compiacciono di questa prospettiva. Sostengono che si sarebbe dovuto aprire subito un tavolo negoziale (in realtà fu fatto anche questo, in una villa lungo la sponda del fiume Pripyat in Bielorussia). La loro ricetta è che ad un’aggressione deve seguire una «contestualizzazione» (cioè, un riconoscimento delle ragioni dell’assalitore), seguita da un «negoziato tempestivo» destinato inevitabilmente a concludersi con la consegna all’aggressore di quel che pretende. Quantomeno parziale. In ogni caso mai aiuti, tantomeno in armi, a chi subisce l’aggressione.

Nella vita pubblica italiana a non aver cambiato idea sono rimasti ovviamente quelli che fin dall’inizio erano di quest’idea — i pacifisti assieme a Giuseppe Conte — e, sul versante di una solidarietà esplicita a Zelensky, Mattarella, Draghi e la Meloni. Solo il Pd sembra aver optato per una mutazione di linea. Graduale, certo. Ma pur sempre un cambiamento.

Un convegno organizzato a Milano da Gianni Cuperlo dal titolo «La parola Pace. L’utopia che deve farsi realtà» è stato dedicato all’antico rito dell’autocritica. Cuperlo ha espresso l’esigenza di «recuperare un terreno» (quello della pace) che il Pd non ha «saputo calpestare nel modo giusto». Elly Schlein, presente, ha affermato il dovere di rimettere «con forza» la parola pace nel «linguaggio» nonché nelle «rivendicazioni» del suo partito.

E fin qui… Giuseppe Provenzano si è spinto più in là sostenendo che nei mesi passati c’è stata da parte del Pd una «criminalizzazione di molti pacifisti autentici» i quali «meritavano dialogo e non accuse di putinismo». Anche Lorenzo Guerini ha pronunciato parole di sofferto pentimento: «Da mesi assegniamo patenti che non dovremmo assegnare».

Ha poi tenuto a precisare che due esponenti della comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi e Mario Giro, (con i quali — par di capire — all’epoca in cui era ministro della Difesa, ebbe qualche dissenso) non avrebbero dovuto essere «arruolati tra gli amici di Putin». Pierfrancesco Majorino ha proposto di ridiscutere l’obiettivo del 2% del Pil in spese militari. E Romano Prodi, in videoconferenza, ha (forse) concordato con Majorino sostenendo che c’è «una terribile rincorsa agli armamenti che non serve a niente».

Qualche giorno dopo sul «Fatto quotidiano» una pacifista della prim’ora, Donatella Di Cesare, ha sbeffeggiato i convegnisti del Pd definendoli «acrobati» («troppo facile cavarsela con l’ammissione di un piccolo grande errore»). A sua volta — sempre sul «Fatto» — Cuperlo è tornato sul tema riconoscendo «un fondo di verità» nelle critiche rivolte al Pd da Alessandro Orsini e Andrea Scanzi.

Vien da dire che, se il nuovo Partito democratico intende rimettere in discussione l’atteggiamento che per quasi due anni ha tenuto nei confronti dell’aggressione russa all’Ucraina, dovrebbe farlo in un modo forse più approfondito e organico. L’occasione verrà in questo fine settimana quando Prodi, Paolo Gentiloni ed Enrico Letta parteciperanno ad un dibattito organizzato dalla Schlein.

Prodi e Gentiloni sicuramente non prenderanno di petto il problema e, a modo loro, se la caveranno parlando d’altro. Ma da Letta — che dopo il 24 febbraio 2022 pronunciò sull’Ucraina parole di inequivocabile nettezza a seguito delle quali fu contestato in molte manifestazioni della sinistra — ci aspettiamo qualcosa di più impegnativo. A maggior ragione per il fatto che, a seguito della débâcle elettorale del settembre 2022, non ha più preso la parola in pubblico.

Curiosamente negli stessi giorni in cui il Pd procedeva sulla via dell’autodafé, «Avvenire», il quotidiano della Conferenza episcopale italiana (che in tema di pacifismo non deve prender lezioni da nessuno), ha pubblicato un interessante editoriale di Andrea Lavazza. Lavazza, con un’invidiabile ricchezza argomentativa, giunge alla conclusione secondo cui «darla vinta a Putin» non sarebbe «un buon esercizio di cinismo e Realpolitik».

Anzi sarebbe frutto di un «calcolo miope». C’è da guadagnare, s’è chiesto l’editorialista del giornale dei vescovi, «risparmiando sugli invii di armamenti e prestiti?». «Un po’ oggi, non domani». «Dimenticare Kiev e chiudere gli occhi davanti alle insidie provenienti dalla Russia è una tentazione pericolosa», ha concluso Lavazza. «Sia sul piano umanitario (sui campi di battaglia e nelle città ucraine si continua a morire), sia sul piano geostrategico rimane vitale tenere accesi i riflettori sulla crisi e cercare soluzioni praticabili di lungo periodo che siano in linea con i nostri valori e i nostri interessi». Parole che a noi paiono sante. E non solo in ragione del giornale su cui sono state pubblicate.

(Bucha, fossa comune)

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