Molta forma, scarsa sostanza, poca solidarietà. Il Piano Mattei vuole riscrivere la cooperazione con l’Africa nel nome della (nostra) sicurezza economica, energetica e dei confini (valigiablu.it)

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Che Giorgia Meloni sarebbe arrivata alla 
COP28 di Dubai parlando del Piano Mattei era 
abbastanza scontato. 

“L’energia è uno dei pilastri del Piano Mattei per l’Africa, il piano di cooperazione e sviluppo su cui l’Italia sta lavorando con grande determinazione per costruire partenariati reciprocamente vantaggiosi e sostenere la sicurezza energetica dei Paesi africani e del Mediterraneo”, ha detto la Presidente del Consiglio il 2 dicembre alla sessione plenaria. Meno scontato era il riferimento al Piano Mattei all’evento dell’1 dicembre, dedicato alla necessità di trasformare i sistemi alimentari di fronte al cambiamento climatico, in cui Meloni ha specificato che “una parte molto consistente del nostro Piano Mattei per l’Africa è destinata al settore agricolo”. Quanto è trasversale questo Piano Mattei? E cosa prevede in concreto? Per capirlo serve fare un passo indietro.

A distanza di un anno dal primo annuncio fatto a Montecitorio, il governo Meloni ha cominciato a dare forma al “Piano Mattei”, delineandone la governance col decreto legge n°161 del 15 novembre, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Era stata la stessa Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella richiesta di fiducia alla Camera dei Deputati per la costituzione del governo, il 25 ottobre del 2022, a parlare per la prima volta di un “Piano Mattei”, definendolo “un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane”, allo scopo di “recuperare, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo”. Nonostante il tempo trascorso e l’ampio dibattito che ne è scaturito, il governo ha scelto di rifugiarsi nella solita formula del decreto legge, delineando “disposizioni urgenti per il Piano Mattei per lo sviluppo in Stati del Continente Africano”. Talmente urgenti, viene da pensare, che non c’è stato neppure il tempo di delineare con quali Stati africani avviare quella che è stata annunciata come una nuova forma di cooperazione.

Nel famoso scherzo ai danni della premier da parte dei comici russi Vovan e Lexus, che si sono spacciati per il presidente della Commissione dell’Unione Africana, è emersa una conoscenza non proprio approfondita del Continente forse più complesso al mondo: non citare neppure uno dei 54 Stati africani, definendoli in maniera sommaria come fossero un insieme indistinto, è un atto che denota una approssimazione non incoraggiante. E che lascia intatte le critiche di neocolonialismo rivolte al governo, nonostante le tante rassicurazioni fornite in questi mesi sia dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, sia dalla stessa presidente del Consiglio. Se il primo ha promesso che “l’Italia guarderà sempre al continente africano con una visione non europea”, Meloni ha ribadito che lo scopo è costruire “un modello di cooperazione su base paritaria per trasformare le tante crisi anche in possibili occasioni”. Dopo tanti annunci, comunque, finalmente è arrivato un primo parziale documento. Ma cosa prevede nello specifico?

Piano Mattei: i primi tasselli di un puzzle complicato

Come già accennato, il decreto legge sul Piano Mattei è composto da sette articoli. Nel primo si descrive per la prima volta in maniera un po’ più dettagliata questo Piano, finora ricco di promesse ma povero di sostanza. Confermando in ogni caso la volontà del governo Meloni di dare centralità ai rapporti con l’Africa, come d’altra parte si era già compreso attraverso il riferimento a Enrico Mattei, uno degli italiani più famosi e apprezzati nel Continente. Il Piano è un “documento  programmatico  strategico” che “individua ambiti di intervento  e  priorità  di azione” su un lungo elenco di settori, ha una durata quadriennale, coincidendo dunque con la legislatura del governo, e potrà essere aggiornato anche prima della scadenza.

All’art.2 si introduce l’immancabile “cabina di regia” che, oltre alle figure istituzionali, prevede anche la nomina di “rappresentanti  di  imprese  a partecipazione  pubblica,  del  sistema  dell’università   e   della ricerca, della società civile e del terzo settore, rappresentanti di enti pubblici o privati, esperti nelle materie trattate, individuati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. All’art. 3 vengono definiti i compiti della cabina di regia, piuttosto sommari, mentre all’art.4 si istituisce, a partire dal 1° dicembre 2023, una “struttura di missione” che farà capo alla Presidenza  del  Consiglio: una scelta annunciata, che conferma la volontà di accentramento da parte di Giorgia Meloni. La struttura di missione avrà un coordinatore, da individuare presso “gli appartenenti alla carriera diplomatica”, ed è articolata nel solito ostico burocratese (“due  uffici  di livello dirigenziale generale, compreso quello del coordinatore, e due uffici di livello dirigenziale non generale”).

All’art.5 si prevede che entro il 30 giugno di ciascun anno il governo trasmetterà al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione del Piano, per valutare l’efficacia degli interventi rispetto agli obiettivi perseguiti. La disposizione finanziaria, prevista nell’art.6, ammonta a poco meno di 3 milioni di euro a decorrere dal 2024, cifra con la quale probabilmente si intendono pagare compensi e viaggi della struttura di missione. Infine all’art.7 si indica che il decreto legge entra in vigore dal 16 novembre e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge.

A una prima lettura si comprende come le domande inevase restino più numerose delle risposte fornite. Ad esempio: con quali stanziamenti verrà finanziato l’intero Piano Mattei? Durante una visita in Mozambico, a metà ottobre, Meloni ha confermato la volontà di ricorrere al Fondo Italiano per il Clima, istituito con la Legge di Bilancio 2022 per dare seguito alla decisione votata alla COP26 di Glasgow di mobilitare 100 miliardi di euro per affrontare le conseguenze del riscaldamento globale nei paesi in via di sviluppo. Dei 4,2 miliardi complessivi, ha detto la presidente del Consiglio, “il 70% del nostro Fondo Clima sarà dedicato all’Africa, circa 3 miliardi di euro, un investimento importante con cui vorremmo spingere a un nuovo approccio tutta l’Ue”.

Una decisione che ha visto l’opposizione di numerose ONG italiane e internazionali, le quali temono che invece delle previste operazioni di mitigazione e adattamento, il Fondo andrebbe a finanziare nuove estrazioni di idrocarburi, considerati i fortissimi interessi di ENI su tutto il continente (ci torneremo a breve). Il 13 luglio scorso, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha reso nota la nascita del Comitato di indirizzo sul Fondo Italiano per il Clima. Adesso si attende che l’organo gestore del Fondo, vale a dire Cassa Depositi e Prestiti, predisponga il piano industriale per gli investimenti. Ma di tutto ciò, come abbiamo visto, il decreto legge non fa menzione, limitandosi a istituire la cabina di regia e la struttura di missione. Insomma: il Piano Mattei è ancora tutto da scrivere. Una sensazione che era già emersa in un sondaggio diffuso nei primi giorni di novembre e realizzato dall’istituto Ipsos per la ONG Amref Italia. L’indagine è stata condotta tra il 5 e il 9 ottobre 2023 e ha visto il coinvolgimento di 800 persone, rappresentative della popolazione italiana.

Nella prima parte dell’indagine – dal titolo “L’idea dell’Africa per gli italiani e l’agenda politica” – si rileva che solo il 12% degli intervistati ha sentito parlare del Piano Mattei e ricorda il contenuto, anche se un buon 46% ricorda solo il nome per sentito dire.  Guardando al continente africano, secondo gli italiani i soli aiuti economici non bastano, l’Africa è un continente con molte risorse che potrebbero essere sfruttate meglio (86%). Gli aiuti più importanti dovrebbero concentrarsi innanzitutto sull’obiettivo di garantire l’accesso alle cure sanitarie (36%); di costruire infrastrutture scolastiche e istruzione di qualità (33%); di migliorare il settore agricolo (26%) e di contrastare la malnutrizione (21%). Al 16% – quinto posto – la gestione dei flussi migratori.  

Non esattamente le priorità del governo Meloni.

Il ridimensionamento della cooperazione

Dall’annuncio del Piano Mattei a una sua prima stesura è passato, dicevamo, esattamente un anno. Un periodo di tempo nel quale le critiche erano state più numerose degli apprezzamenti. Col testo a disposizione la proporzione non pare essere cambiata. Se era facile prevede il sostegno dei giornali di destra, meno scontata era l’approvazione da parte di riviste specializzate come Africa e Affari. Allo stesso tempo sorprendono un po’ i palesi dubbi manifestati da testate come Il Sole 24 ore, che ha parlato di “contenuti vaghi” (critica praticamente uguale a quella de Il Foglio) e Il Corriere della Sera, che ha ospitato l’intervento di Silvia Stilli, portavoce di AOI, l’Associazione delle Organizzazioni Italiane di cooperazione e solidarietà internazionale, che sulle pagine del più noto quotidiano italiano raramente trova spazio.

Nel suo intervento Stilli sostiene che “qualunque sia la strada legislativa scelta, la finalità del governo è di utilizzare il Piano di partenariato e cooperazione con l’Africa, di cui c’è enorme bisogno, per svuotare di funzione e contenuti e poi cancellare la legge 125/2014”, cioè la legge che disciplina l’ordinaria attività di cooperazione internazionale che affida la regia e la titolarità di programmazione e di attuazione al ministero degli Affari esteri.

Dal titolare del ministero, Antonio Tajani non sono però emersi malcontenti sulla gestione del Piano Mattei, almeno a livello ufficiale. Anzi, in risposta al deputato del Partito Democratico Giuseppe Provenzano, che in una recente seduta di question time lo aveva descritto come schiacciato sulle posizioni della presidente del Consiglio, Tajani aveva rassicurato: “Non mi faccio commissariare”. Spiegando poi meglio nel dettaglio genesi, caratteristiche e prospettive del Piano Mattei:

Numerose le aree di cooperazione: agroindustria, transizione energetica, lotta ai cambiamenti climatici, infrastrutture, fisiche e digitali, formazione professionale, cooperazione culturale, scientifica e accademica. Intendiamo mettere a sistema le attività che l’Italia realizza, orientandole su priorità condivise e mobilitare nuove risorse non solo pubbliche. Vogliamo incrementare le joint venture di cui il continente è ricco. La crescita è lo strumento più efficace per favorire la stabilizzazione delle aree di crisi, aggredire le cause delle migrazioni e contrastare la diffusione del radicalismo. Anche la cooperazione e lo sviluppo rappresenta un tassello importante. L’Africa è il primo beneficiario delle nostre attività. Nel continente abbiamo 400 iniziative a dono e più di 40 progetti a credito per un totale di circa 2 miliardi di euro. Ma l’Italia non può farcela da sola. Fin da quando ero vice presidente della Commissione a Bruxelles insistevo sulla necessità di un piano Marshall europeo per l’Africa e (lo faccio, nda) ancora oggi che è ancora più necessario. Occorre coinvolgere le organizzazioni e le istituzioni finanziarie internazionali come abbiamo fatto per la Conferenza di Roma su sviluppo e migrazioni.

Di tutto un po’, verrebbe da dire.  Intanto la tanto attesa conferenza Italia-Africa, prevista per il mese di novembre, dopo la crisi mediorientale è stata rinviata a un non meglio precisato inizio del 2024. Per il ministero degli Esteri, “ciò consentirà anche un migliore coordinamento con gli altri eventi dell’agenda internazionale e in particolare le riunioni dell’Unione Africana e della Presidenza Italiana del G7, durante la quale l’Africa avrà un ruolo centrale”. Secondo Mario Giro, ex viceministro degli Esteri e dirigente della Comunità di Sant’Egidio, col Piano Mattei “l’Italia entrerebbe in settori imprenditoriali [africani, nda] comprando parti di proprietà o avviando joint venture”. Mentre sulla rivista Vita, punto di riferimento del terzo settore, Giampaolo Silvestri, segretario generale di Fondazione AVSI, ricorda che “la cooperazione con l’Africa va avanti da tantissimi anni. Quindi il Piano Mattei deve avere la capacità di fare scaling up, di mettere a sistema le esperienze positive e fare sia sintesi che replica di queste esperienze”.

Finora, però, di tale volontà di dialogo con leggi ed enti esistenti non si vede traccia: sia la cabina di regia che la struttura di missione, infatti, vengono strappate alla Farnesina, confermando la tendenza di Giorgia Meloni a voler fare da sé, senza fidarsi dei suoi alleati di governo. Come scrive Antonio Fraschilla su Repubblica, “la presidente del Consiglio in un anno ha creato cinque strutture di missione che costano circa 18 milioni di euro e prevedono esterni ed esperti per 3 milioni di euro all’anno, togliendo competenze a ministeri vari per accentrarli, in molti casi, a Palazzo Chigi”.

Di certo c’è che, in questo primo parziale tassello del Piano Mattei, il mondo della cooperazione esce ridimensionato, specie alla luce del fatto che nella prima bozza della Legge di Bilancio 2023 era perlomeno previsto un comma che prevedeva 200 milioni all’anno per interventi di cooperazione allo sviluppo, con priorità nel campo agricolo ed energetico, comma poi scomparso nella successiva versione della Legge di Bilancio.

Soprattutto emerge la volontà del Governo di interpretare i rinnovati rapporti con l’Africa all’insegna di uno dei più noti slogan della destra italiana, “aiutiamoli a casa loro”. Perfino per far scontare ai detenuti africani le sentenze di condanna nei paesi di origine, come affermato ad agosto, in visita al carcere di Livorno, dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro.

Un’idea di cooperazione che sembra legata più agli interessi economici che alla solidarietà tra popoli. In occasione del bando “Promossi 2023”, realizzato dal Governo italiano e dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo che sarà pubblicato il prossimo dicembre, il viceministro Edmondo Cirielli ha dichiarato:

Il presidente Meloni ha lanciato un grande Piano Mattei’ rivolto all’Africa non perché vogliamo abbandonare altri Paesi del Sud globale, ma è chiaro che l’Italia da sempre per la sua posizione geografica è il Paese più connesso con l’Africa. Noi abbiamo una responsabilità molto chiara nei confronti della zona che abbiamo di fronte, non solo per gli obblighi e gli impegni assunti a livello internazionale ma anche perché questo ha un senso economico che può aiutare entrambi”.

La sicurezza, e l’energia di ENI, prima di tutto

La parola chiave del decreto legge sul Piano Mattei è “sicurezza”. Nell’introduzione del testo si giustifica il ricorso a questo strumento legislativo affermando “la necessità e l’urgenza di definire un piano complessivo per lo sviluppo della collaborazione tra Italia e Stati del Continente africano, che si inserisca nella più ampia strategia italiana di tutela e promozione della sicurezza nazionale in tutte le sue dimensioni, inclusa quella economica, energetica, climatica, alimentare e della prevenzione e del contrasto ai flussi migratori irregolari”.

Il portale Formiche.net ricorda che dell’Africa si sta occupando in questi mesi anche il Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Un’attività che, a seguito di una serie di audizioni, porterà agli inizi del 2024 a una relazione, in quella che viene definita una “sinergia” tra attività parlamentari e governative:

L’attenzione all’Africa da parte del Copasir, presieduto oggi dall’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Partito democratico), riflette quella del governo, deciso a coinvolgere l’Unione Africana nel G7 dell’anno prossimo che presiederà e che avrà una particolare attenzione al Sud Globale. C’entra lo sviluppo demografico: secondo la Banca mondiale entro il 2075 l’Africa dominerà la popolazione globale in età lavorativa, coprendo un terzo del totale. C’entrano le materie prime fondamentali per la transizione green-tech e quindi per quella economica. C’entrano questioni di sicurezza: immigrazione ma anche rischi legati ai gruppi terroristici e jihadisti. C’entra il peso che il continente avrà a livello multilaterale, con i suoi 54 paesi membri delle Nazioni Unite. E, collegato a tutte queste sfide e opportunità, c’entra il confronto tra modelli che rientra nella più ampia competizione tra superpotenze, Stati Uniti e Cina.

Perfino da un blindatissimo Parlamento filtrano dubbi e perplessità. La 3ª Commissione permanente (Affari esteri e difesa) del Senato, presieduta da Stefania Craxi, sta svolgendo una serie di audizioni informali proprio sul Piano Mattei e nella seduta del 29 novembre ha dato voce alle preoccupazioni dell’ampio mondo della cooperazione e delle organizzazioni non governative. La stessa Craxi prima ricorda che sul decreto legislativo “non possiamo presentare emendamenti” e poi a microfono aperto,  tra una sessione e l’altra,  si lascia sfuggire che “alcune cose che hanno detto sono interessanti”.

A parte la condivisione del Piano Mattei da parte di tutti i ministeri, sull’impianto generale del decreto legislativo, in attesa di un programma articolato vero e proprio sul Piano Mattei, uno dei timori maggiori è quello di una sovrapposizione di competenze e di ambiti con le realtà già esistenti e che operano da tempo in Africa, come d’altra parte è avvenuto più volte in passato.

Un caso su tutti è quello dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo: nella sintesi pubblicata sul proprio sito l’Agenzia ricorda che “può vantare un budget annuo di poco inferiore al miliardo di euro e disegna, finanzia e gestisce centinaia di progetti in tutto il mondo e in tanti settori. L’Africa è un continente articolato e diversificato, con traiettorie sociali e di sviluppo differenti, ma l’Agenzia lo conosce bene perché delle sue 18 sedi, nove sono in Africa e negli ultimi cinque anni, sono stati deliberati 1.400 progetti nel continente per un valore attorno al miliardo di euro”.

Tornando nello specifico al Piano Mattei, in una interessante analisi Simone Ogno, campaigner della ONG ReCommon, osserva che:

L’impronta politica del governo è chiara fin dall’inizio, alla faccia della tanto sbandierata cooperazione su base paritaria: la matrice è securitaria, e ogni aspetto del Piano sarà da intendersi in quest’ottica. Un messaggio reiterato anche dall’assenza di qualsiasi riferimento formale alla partecipazione di paesi, istituzioni pubbliche o enti privati africani – soprattutto quelli appartenenti alla società civile – alla governance del Piano.

Della cabina di regia, oltre alla squadra di governo, faranno parte anche le istituzioni di finanza pubblica italiane, a partire da SACE: l’agenzia di credito all’esportazione grazie alla quale l’Italia è il primo finanziatore europeo di progetti fossili all’estero, il sesto a livello globale (…) Il monitoraggio civile di questo processo è più che mai dirimente, alla luce di potenziali conflitti di interesse. Un problema che si presenta anche con la struttura di missione del Piano, di cui potrà fare parte “personale di società pubbliche controllate o partecipate dalle amministrazioni centrali dello Stato in base a rapporto regolato mediante convenzioni”. Forse convenzioni come quella Farnesina ed ENI, che permette al gigante petrolifero di stanziare membri del suo personale presso il ministero per un periodo illimitato di tempo?

Quelle di ReCommon non sono le uniche perplessità che emergono dal mondo associativo. Anche la bocciatura del WWF è netta:

In questa confusa delega in bianco, occorre iniziare a leggere tra le righe. Nessun ruolo prioritario viene assegnato alle rinnovabili, che sembrano decisamente in secondo piano rispetto ad uno sfruttamento, seppur definito come “sostenibile”, delle risorse naturali, ovvero, implicitamente, delle fonti fossili. Le rinnovabili, al contrario, dovrebbero essere l’asse portante di un sistema energetico decarbonizzato, alla base dello sviluppo sostenibile anche degli stessi paesi africani. Parimenti, l’intento di trasformare l’Italia in un hub del gas, più volte rappresentato da questo governo, anche in atti ufficiali come il PNIEC, è mal celato dal decreto sul Piano Mattei. Il punto non viene direttamente affrontato, né mai citato, ma l’impressione è che si rimetta alla struttura burocratica, ad hoc definita, il far passare sottotraccia potenzialmente qualsiasi tipo di progetto. Soltanto nei prossimi mesi si saprà davvero quali ambiti di intervento andrà a toccare il Piano Mattei, quali Stati del continente africano saranno effettivamente coinvolti, con quali modalità, finalità e progetti. Ad oggi, abbiamo una costosa scatola vuota, che tuttavia già desta molte preoccupazioni.

Dato che il Piano Mattei fa riferimento al fondatore di ENI, è utile ripercorrere gli interessi della società energetica italiana in Africa. Anche perché Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI dal 2014, ha iniziato la sua scalata ai vertici della società proprio da qui: prima project manager per lo sviluppo delle attività nel Mare del Nord, in Libia, Nigeria e Congo, e successivamente direttore dell’area geografica Italia, Africa e Medio Oriente. In un’intervista di inizio anno al Financial Times, Descalzi era stato diretto, com’è nel suo stile: “Noi non abbiamo energia, loro ce l’hanno”.

Da quando Enrico Mattei scelse di puntare sull’Africa dal punto di vista energetico, ormai 70 anni fa, la presenza dell’azienda si è estesa notevolmente.

(italiaoggi.it)

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