Suicidi in cella, siamo a quota 66 nel silenzio delle istituzioni (ildubbio.news)

di Damiano Aliprandi

I DATI

Nel carcere di Verona-Montorio tre detenuti si sono tolti la vita in meno di un mese. A Viterbo l’esperienza dello staff multidisciplinare per affrontare le situazioni a rischio

Negli ultimi mesi le carceri italiane hanno vissuto un’epidemia di suicidi, con ben 66 detenuti che si sono tolti la vita. Il picco più drammatico è stato registrato nel carcere di Montorio, Verona, con tre decessi autoinflitti in meno di un mese, come denunciato dall’associazione “Sbarre di Zucchero”. L’ultimo episodio quello di un giovane marocchino di nome Oussama Saidiki, proveniente dalla quinta sezione, che si è impiccato nella sua cella di isolamento.

La notizia giunge a poche ore dalla morte di un altro detenuto avvenuta nell’ospedale di San Vittore a Milano, che ha commesso il gesto mortale durante la diretta della Prima della Scala di Milano, creando un ulteriore allarme sulla condizione delle carceri.

Come ha reso noto l’associazione “Sbarre di Zucchero”, Oussama, al quale rimanevano solo tre mesi alla fine della sua pena dopo circa tre anni di detenzione, aveva manifestato segni evidenti di disagio psichico in passato. Il suo stato d’animo era già stato evidenziato da alcuni gesti estremi, come l’ingestione di vetri e l’incendio della sua stessa cella.

Tuttavia, la situazione sembra essere sfuggita di mano nel pomeriggio di ieri quando, durante un colloquio con uno psichiatra, Oussama si è agitato al punto da diventare aggressivo. Questo ha portato alla decisione di isolare il detenuto anziché riportarlo nella quinta sezione, ed è proprio in isolamento che ha compiuto l’atto estremo di togliersi la vita.

IL SILENZIO DELLE ISTITUZIONI SUI SUICIDI

La vicenda di Oussama Saidiki segue a breve distanza i casi di Farhady Mortaza e Giovanni Polin, avvenuti rispettivamente il 10 e il 20 novembre nello stesso carcere. Questi eventi sconvolgenti mettono in evidenza la crescente emergenza legata ai suicidi nelle carceri italiane, sollevando domande e preoccupazioni sul trattamento dei detenuti e sulle condizioni all’interno delle istituzioni penitenziarie.

Ciò che unisce queste storie drammatiche è il silenzio apparentemente insopportabile da parte delle autorità. Nonostante le tragedie si susseguano, le istituzioni sono inerti, senza risposte chiare o azioni concrete volte a prevenire ulteriori episodi di questo genere.

Il silenzio da parte delle istituzioni è oggetto di domanda da parte di “Sbarre di Zucchero”: perché questo silenzio? I familiari delle vittime, insieme alla società civile, ora esigono risposte immediate. In un momento già delicato, come il freddo ponte dell’Immacolata, è imperativo affrontare questa emergenza senza ulteriori indugi.

La situazione richiede un’attenzione urgente e misure concrete per garantire la sicurezza e il benessere dei detenuti nelle carceri. Il silenzio non può più essere tollerato, e la trasparenza e la responsabilità devono diventare le basi su cui costruire un sistema carcerario più umano e attento alle esigenze psicologiche dei detenuti. L’ennesima morte di un detenuto deve essere un grido d’allarme che spinge le autorità a una riflessione profonda e a un’azione immediata per prevenire ulteriori tragedie simili in futuro.

Affrontare il tema dei suicidi in carcere richiede una delicata analisi dei molteplici aspetti che coinvolgono questa drammatica realtà. Il suicidio di un individuo privato della libertà rappresenta un fallimento evidente della funzione punitiva dello Stato. Da un lato, dimostra l’incapacità dell’autorità statale di preservare la vita di coloro che sono sotto la sua custodia, rivelando una contraddizione nel perseguimento del suo ruolo punitivo. Quando lo Stato non riesce a prevenire la morte di un condannato, si verifica una profonda delegittimazione del suo monopolio sull’uso della forza legittima, poiché non riesce a bilanciare la necessità di punizione con la tutela del corpo e della salute del reo.

D’altro canto, la morte di un detenuto mette in luce un aspetto “tipico” della realtà carceraria, che si discosta notevolmente dall’idealizzazione della pena immateriale proposta dagli illuministi. Questo evento crudele e tangibile evidenzia come la prigione sia lontana dall’essere un luogo in cui si realizza un tipo di punizione che agisce esclusivamente sullo spirito umano.

I suicidi in carcere dovrebbero creare scalpore e indignazione, e le storie raccolte da associazioni, volontari, avvocati e familiari confermano spesso che il gesto estremo rappresenta la conclusione tragica di vicende personali complesse, giungendo al punto di rottura durante la detenzione.

IL RUOLO DELLO STAFF MULTIDISCIPLINARE

Un esempio di come prevenire il più possibile i suicidi provenga dal recente documento approvato congiuntamente dal Commissario straordinario della Asl di Viterbo, Egisto Bianconi, dalla direttrice della Casa circondariale di Viterbo, Annamaria Dello Preite, e dal Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Il piano, un aggiornamento di quello del 2018, è il risultato di un impegno congiunto delle istituzioni operanti nel territorio carcerario, che comprende il Tavolo paritetico permanente per la tutela della salute delle persone detenute.

Il tavolo, composto da rappresentanti di diverse istituzioni e professionisti, si incontra regolarmente per monitorare e attuare il piano, focalizzandosi sugli obiettivi prefissati e sull’analisi degli indicatori di processo e di esito. Il piano identifica una serie di fattori di rischio all’interno del carcere, tra cui il sistema di regole restrittive, il sovraffollamento, la carenza di personale, le limitate opportunità lavorative e occupazionali e la deprivazione affettiva e sessuale.

Tuttavia, ciò che emerge con forza è la necessità di un approccio interdisciplinare che coinvolga una vasta gamma di professionisti, compresi polizia penitenziaria, personale sanitario, psicologi, funzionari giuridici pedagogici, assistenti sociali, collaboratori del Garante, volontari e altre figure che operano nel contesto penitenziario.

Un punto chiave del piano è la creazione di uno staff multidisciplinare incaricato di affrontare le situazioni a rischio. Questo staff si compone di tutte le figure coinvolte nella gestione del programma di prevenzione e si riunisce regolarmente per discutere i casi di rischio e valutare le necessità individuali dei detenuti. Si tratta di un forum in cui diverse professionalità e competenze convergono per analizzare congiuntamente le situazioni critiche e sviluppare strategie di intervento coordinate e mirate.

Lo staff multidisciplinare si occupa di valutare le situazioni a rischio, elaborando programmi individualizzati di presa in carico congiunta, integrati, quando necessario, con il Progetto individuale di salute. L’intervento di prevenzione e gestione del rischio è articolato in quattro fasi, che includono l’accoglienza e lo screening, la determinazione dello stato di rischio, gli interventi mirati e la rivalutazione del rischio per l’intera popolazione detenuta.

In conclusione, il piano si presenta come un’importante iniziativa che, attraverso lo staff multidisciplinare, mira a creare un ambiente più sicuro e a fornire supporto efficace per i detenuti vulnerabili, riducendo il rischio di condotte suicidarie e autolesive all’interno della Casa circondariale di Viterbo.

Un approccio completo e coordinato, che dovrebbe essere esteso in tutto il territorio nazionale. Ma rischia di essere un palliativo se non si punta a varare misure deflattive (il sovraffollamento sta raggiungendo numeri vicini a quando scattò la famosa sentenza Torreggiani), evitando inasprimenti delle pene come sta facendo attualmente il governo.

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