Le domande della difesa al processo a Ciro Grillo e la cultura dello stupro (valigiablu.it)

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Facciamo così: 

facciamo che non riportiamo le domande che Antonella Cuccureddu, avvocata della difesa nel processo per violenza sessuale di gruppo a Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, ha rivolto alla giovane donna che li ha denunciati.

Le abbiamo viste girare abbastanza, erano sulle agenzie e negli articoli, e ogni volta sono traumatizzanti per chi le legge e ha subito una violenza sessuale (circa il 21% delle donne, secondo i dati Istat), ma anche per chi non l’ha subita è difficile non trovarle invasive, degradanti, umilianti: sono domande pensate per smontare un’accusa, quella di stupro, e provare invece che il rapporto con “Silvia” (il nome di fantasia utilizzato sui media) era consensuale.

È una tattica vecchia quanto i processi per stupro, giustificata ogni volta con la presunta necessità di appurare i fatti. Solo negli ultimi anni abbiamo imparato a chiamarla con il suo nome, vittimizzazione secondaria: un modo per intimidire e umiliare chi denuncia una violenza, costringendola a rivivere il trauma subito e mettendo in dubbio la sua versione dei fatti.

Nei processi per stupro non c’è molto spazio per i chiaroscuri: fra un rapporto avvenuto con il pieno consenso delle parti e uno in cui il consenso era assente, non espresso o ritirato passa una differenza enorme, e la ragione sta da una parte o dall’altra. Non puoi essere stata un po’ stuprata e un po’ no. O è successo, o non è successo.

Cuccureddu, con le sue domande, vuole insinuare il dubbio che non sia successo: e lo fa usando tutti gli strumenti tradizionali della cultura patriarcale, quella per cui le donne sono per natura bugiarde e manipolatrici, e se vogliono sfuggire a una violenza sessuale possono farlo in qualsiasi momento. Lo crede il 39,3% degli uomini; il 20% ritiene che gli stupri siano causati dall’abbigliamento provocante (sono sempre dati Istat).

Succede spesso, per non dire quasi sempre: è successo anche durante il processo ai Carabinieri, Marco Camuffo e Pietro Costa, accusati (e poi condannati) di violenza sessuale ai danni di due studentesse americane, nel 2017. Anche in quel caso l’avvocata della difesa tentò di scaricare sulle due ragazze la colpa di quanto avvenuto: allora, si trovò di fronte un giudice, un uomo, che la fermò, impedendole di continuare a torturarle. “Io non torno indietro di cinquant’anni”, disse il giudice Frangini. E anche: “Il sadismo non è ammesso”.

Parliamo spesso di come la sottorappresentazione delle donne in molti ambiti lavorativi rallenti il processo evolutivo della nostra cultura collettiva, e questo è in parte vero. E non aiuta di certo il paternalismo esibito dal presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, che, chiamato a esprimersi sulle decisioni della Consulta in materia di parità di genere, ha indirizzato alle donne “impazienti” un richiamo a considerare i progressi fatti. Come dire: e quante ne volete, signore. Non siete grate di non essere più lapidate sulla pubblica piazza? Cosa volete ancora?

La sottorappresentazione, tuttavia, è solo parte del problema. Se le donne fossero un monolite, se fossero tutte “impazienti” e solidali le une con le altre, non solo il patriarcato avrebbe cessato di esistere da un pezzo, ma forse – scenario di fantasia – non avremmo bisogno di processi per stupro, perché con il patriarcato se ne sarebbe andata anche la maschilità scadente che insegna agli uomini a usare i corpi delle donne come mezzo per affermare la propria dominanza.

Invece no: le donne non sono un monolite di impazienza e sorellanza. Le donne sono individui dentro il patriarcato, sospese fra l’oppressione subita e quella agita, fra l’autocoscienza e l’assuefazione, la ribellione e la complicità con la cultura dello stupro. Per diventare avvocata serve conoscere la legge e la sua applicazione: la coscienza di genere non è necessaria. Si può esercitare la professione anche in assenza di scrupoli, rispetto per la controparte o un’idea del mondo e delle relazioni umane che non sia ferma ai tempi del matrimonio riparatore e delle attenuanti per onore, e a quando le brave ragazze stavano a casa e non se l’andavano a cercare.

La cosa grave, nell’episodio del processo a Grillo e compagni, è l’effetto che questi interrogatori sortiscono su chi, avendo subito una violenza, intende denunciare o si trova già coinvolta nel processo. È una violenza che si somma alla violenza già subita, ed è incredibile che sia ancora necessario ribadirlo: no, se sei costretta a un rapporto orale non basta mordere, perché uno che ti costringe a un rapporto orale non sai a quali livelli di violenza potrebbe arrivare, e in quei momenti la paura si somma a un addestramento millenario a portare a casa la pelle.

Sottrarsi a una violenza, a prescindere dallo stato di coscienza in cui ci si trova, non è sempre possibile: talvolta non è nemmeno consigliabile, lo stupro è il male minore, con buona pace delle indicazioni di Santa Romana Chiesa che, canonizzando Maria Goretti, ci ha detto che piuttosto che violate (quindi: impure) ci preferisce morte.

È una logica insostenibile, come tutto quello che ha a che vedere con l’idea astratta di femminilità, che è sempre sbagliata, sempre inadeguata. Sei gentile? Sii più tosta. Sei tosta? Datti una calmata. Le donne, che sono educate fino dalla più tenera età a reprimere la rabbia, a non esibirla, a contenere l’aggressività, a essere docili, gentili, accomodanti, dialoganti, dovrebbero trasformarsi all’improvviso in Erinni vendicatrici, capaci di riportare i loro aggressori a più miti consigli con la forza fisica, arrivando ad azzannare genitali con una veemenza non meglio specificata.

Per poi magari ritrovarsi sul groppone una denuncia per lesioni personali gravi, e dover ricominciare da capo a provare che a quel rapporto orale erano state costrette, e quel morso è stato inferto per autodifesa e non per aggressione.  Aggiungiamo anche questa voce alla lunga lista di cose che dovremmo fare in un certo modo solo finché non le dobbiamo fare in tutt’un altro modo.

Antonella Cuccureddu fa il suo mestiere, e lo fa con tutta la spregiudicatezza che le è consentita, perché il suo mestiere, in questo momento, è difendere qualcuno che è accusato di un crimine orrendo in maniera molto credibile, con tanto di video. Distruggere l’accusa sotto il profilo della credibilità e della tenuta psicologica potrebbe essere l’unico modo per arrivare a un pronunciamento favorevole per i suoi assistiti.

I precedenti ci sono: la donna peruviana troppo brutta per essere stuprata, il bidello dei dieci secondi, il caso ancora non chiarito del presunto stupro sulla Circumvesuviana, ma soprattutto quello della ragazza aggredita a Fortezza da Basso nel 2008. Un processo che finì con un’assoluzione, ma anche con una condanna della Corte Europea per i diritti umani all’Italia. Che questa strategia sia ammissibile e possa funzionare, quello è il vero problema: ed è su questo che dobbiamo concentrarci.

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