Salario minimo
Il dibattito sul salario minimo un merito lo ha avuto. Il Paese ha compiuto un salto di qualità: dopo aver trascorso alcuni anni – in regime di reddito di cittadinanza – a lamentarci della povertà, ci siamo avventurati sul terreno scosceso del lavoro povero e quindi del livello delle retribuzioni e dei redditi.
Così abbiamo trovato un motivo in più per piangerci addosso: i nostri livelli salariali sono tra i più bassi in Europa e praticamente – mutatis mutandis – sono ancora quelli del 1991. La constatazione sta scatenando una protesta sociale fine a se stessa (alla stregua del solito “Piove, Governo Ladro!’’), senza nessuno sforzo per impegnarsi a cercare i motivi reali di questa condizione, perché alcuni di essi sono scomodi e contraddicono la “vulgata’’ auto assolutoria a cui si affidano le persone, le famiglie, i grandi soggetti collettivi.
Guai a confrontare le differenze in termini di produttività del lavoro: il compito della redistribuzione del reddito è affidata in via prioritaria alle politiche pubbliche attraverso una vera e propria “nazionalizzazione’’ del salario, i cui incrementi non sono più rivendicati nei confronti dei datori di lavoro, ma affidati a bonus fiscali, sussidi pubblici, misure di tutela legislativa, come, ad esempio la revisione delle aliquote fiscali, la decontribuzione, le prestazioni assistenziali, lo stesso salario minimo.
Ciò accade in un Paese tra i più sindacalizzati dell’Ocse, in cui la contrattazione collettiva confederale storica, copre il 97% del lavoro dipendente e dove, i giudici si arrogano il diritto – a prescindere da quanto stabiliscono i contratti e le leggi stesse – di decidere a loro discrezione quale debba essere la retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’articolo 36 Cost.
Anziché prendersela con i governi di destra e la sinistra rinunciataria, sarebbe utile approfondire la materia. In primo luogo, quali sono i salari più bassi rispetto a quelli europei?
“Per chi lavora a tempo pieno – ha scritto su Il Foglio l’economista Marco Leonardi già stretto collaboratore di Mario Draghi – facciamo un confronto tra occupazioni equivalenti in Italia e Francia: prendiamo un addetto alle pulizie, il salario annuale previsto da contratto è leggermente superiore in Italia che in Francia (23 mila retribuzione annua lorda circa). Il salario annuale da contratto di un cameriere è superiore in Italia (29 mila) rispetto alla Francia (26 mila).
Qualcuno dirà che è un problema di tassazione differente, ma l’Irpef italiana (forse anche per compensare la stagnazione salariale) nel tempo – spiega Leonardi – si è spostata sempre più verso i redditi alti; tanto è vero che coloro che guadagnano meno di 20 mila euro all’anno praticamente non pagano Irpef e la differenza nella tassazione delle famiglie con figli con la Francia è stata parzialmente colmata dall’assegno unico universale (non a livelli medio alti di reddito dove è ancora molto elevata).
Il problema dell’Italia sta nella mancanza di posizioni di livello alto. Mentre camerieri e addetti alle pulizie sono pari, il novantesimo percentile della distribuzione del reddito da lavoro dipendente in Francia è 4.600, in Italia è solo 4.000 euro mensili lordi: in Italia esistono poche posizioni dirigenziali e sono pagate poco. E’ per questo che i giovani italiani emigrano”.
In questi ultimi giorni l’Ocse ha riservato ulteriori sorprese. Cominciamo dalla prima: quale è il prototipo del pensionato in Italia? Se non è costretto a rovistare nelle immondizie o a chiedere la carità, in tv ve lo presentano come un moltiplicatore redivivo dei pani e dei pesci: quando ci informa dell’importo della sua pensione ci chiediamo come possa sopravvivere.
Eppure, la perfida Ocse, nel Rapporto “Pensions at a glance” demolisce questa caricatura sostenendo che l’Italia è tra i paesi in cui la spesa pensionistica (322 miliardi sono un terzo della spesa pubblica) pesa di più sul Pil (16%); in cui i pensionati hanno redditi in media più alti di chi lavora; dove i contributi previdenziali pagati dai datori e dai lavoratori (33%) sono la quota più alta del cosiddetto cuneo contributivo, mentre, nel complesso, l’aliquota media di contribuzione effettiva per le pensioni nei paesi Ocse è del 18,2% del livello salariale medio.
Essendo i grandi sistemi di previdenza pubblica finanziati con il metodo della ripartizione (sono i lavoratori attivi a pagare con i loro contributi le pensioni in essere), la differenza c’è e si vede; e la si avverte in busta paga e per quanto riguarda il costo del lavoro delle imprese. A questo ragionamento si replica così: sta bene, noi spendiamo di più per le pensioni, ma la spesa sociale complessiva non è superiore a quella media europea; anzi, rispetto a taluni Paesi è più bassa. Peggio mi sento.
Ciò significa che non solo la spesa pensionistica è la voce più importante ad incidere sul divario tra salario lordo e netto nella busta paga dei lavoratori attivi, ma che questa voce si è mangiata gran parte delle risorse da destinare alle altre politiche sociali.
Oggi il Paese si è reso conto del duplice effetto dell’invecchiamento e della denatalità. Secondo le analisi correnti le cicogne hanno smesso di volere per motivi prevalentemente economici: la condizione di precarietà dei giovani e l’assenza di politiche di sostegno. In proposito c’è una storia italiana che è segretata, al pari della vicenda dell’agenda rossa di Paolo Borsellino.
Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana dedica il 4% dell’intera spesa sociale che è la metà di quella media europea. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, era pressoché corrispondente a quella per le pensioni la spesa per assegni familiari: allora misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare – l’Anf – il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia, ragguagliato al reddito e al numero dei componenti.
La riforma del sistema pensionistico del 1995, stabilì una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7%. Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, ad oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota per l’Anf passò dal 6,2 al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23 allo 0,66%, mentre quella ex Gescal (per l’edilizia popolare, di cui oggi si avverte la mancanza) dallo 0,35% a zero.
In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili fu di 4,6 miliardi di lire per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi. A prezzi 2008, le risorse disponibili, trasferite alla voce pensioni, sono state corrispondenti a 8,5 miliardi l’anno.