Turbominchia
Il capo a Cinque Stelle accusa Meloni di turboatlantismo per aver mandato una fregata, insieme ad altri 35 paesi, a garantire una rotta da cui passa il 30 per cento del traffico commerciale mondiale.
Ma a lui questo non interessa
C’è stato un tempo in cui il senso delle Istituzioni suggeriva agli ex presidenti del Consiglio la massima coerenza e la minor demagogia in materia di politica estera e di difesa. I tempi sono evidentemente cambiati. Nessun giornale ne ha dato conto e, tutto sommato, anche questo è un segno dei tempi.
Resta, tuttavia, il fatto che l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nei giorni scorsi abbia sparato a palle demagogiche incatenate contro la decisione dell’Italia di partecipare, con la fregata Virginio Fasan, alla missione internazionale volta a ripristinare la navigabilità dello stretto di Suez e del Mar Rosso, compromessa dalle incursioni militari dei ribelli jememiti, sciti, Huthi.
Coalizione a cui partecipano circa 35 paesi tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Norvegia, Canada e che mercoledì ha avuto il via libera del capo della politica estera europea, Josep Borrel.
L’intrepido Conte l’ha messa così: “L’Italia si sta caratterizzando come turboatlantista… Non mi sembra che farci coinvolgere in un ulteriore conflitto sia il nostro obiettivo, ma siccome bisogna essere ossequiosi a Washington, manderemo una fregata e forse ne manderemo delle altre”. Un uomo tutto d’un pizzo.
Si dà però il caso che per l’Italia, così come per gli altri paesi della coalizione, non si tratti si assecondare un diktat americano, ma di impedire che i ribelli Huthi blocchino una rotta da cui passa circa il 30 per cento del traffico commerciale mondiale e l’intero interscambio tra il nostro Paese e l’Asia. Evitare Suez per i mercantili e le petroliere significherebbe dover circumnavigare l’Africa: sette giorni di navigazione in più, con relativa impennata dei costi che dagli armatori si ripercuoterebbero sui consumatori,
Ma questo a Conte non interessa.
A lui, oggi, interessa screditare l’immagine del governo facendolo apparire servile nei confronti degli Stati Uniti così come, in materia di riforma del Patto di stabilità, di Francia e Germania. Calcoli di bottega elettorale che mal si conciliano con il recente status istituzionale del nuovo capo grillino.
Resta, così, la nostalgia per lo stile dei tempi andati. Tempi lontani. Comunque lontanissimi dalla sensibilità del camaleontico Conte. Lo abbiamo riscontrato alla Camera, quando il Movimento 5stelle si è allineato a FdI e Lega nel respingere la riforma del Mes i cui negoziati erano stati avviati nel 2021, con Conte premier. Lo abbiamo visto sin dall’inizio della legislatura sull’Ucraina. Il Conte “pacifista” ha più volte criticato la scelta del governo Meloni, così come dell’Unione europea, di sostenere lo sforzo bellico del popolo ucraino inviando armi e munizioni.
Soldi sottratti agli italiani in difficoltà, è stata ed è la retorica contiana. Narrazione che mal si concilia col fatto che sia nel 2018 sia nel 2019 l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia assicurato alla Nato che l’Italia avrebbe portato al 2% del Pil le proprie spese militari e che con lui a Palazzo Chigi le spese militari siano effettivamente passate dai 23,4 miliardi del 2018 ai 25,6 miliardi del 2021. Oltre due miliardi di euro in più.
Ma è inutile stupirsi, allora il “turboatlantista” era Giuseppe Conte, il quale aveva evidentemente ritenuto opportuno mostrarsi “ossequioso a Washington”.