“L’identità consiste nella coerenza di ciò che si fa e di ciò che si pensa”.
Se dovessimo ricorrere al pensiero di Charles Sanders Peirce – filosofo e semiologo statunitense dell’Ottocento – per cercare di descrivere il mistero doloroso dell’abbacinamento Dem nei confronti del movimento politico guidato da Giuseppe Conte, dovremmo provare a trovare – al netto del tasso di camaleontismo e di cortina fumogena che l’avvocato di Volturara Appula mette sempre in campo con dosi da cavallo – la coerenza tra ciò che si fa e ciò che si pensa.
Compiendo questa dose, ci potremmo facilmente rendere conto che l’identità profonda, il legame tra ciò che si pensa e ciò che si fa, ogni qual volta che si è andati ai “fondamentali” della vita politica di questi ultimi anni ne hanno svelato, inevitabilmente, una natura di destra. Una destra tipicamente italiana: reazionaria, antiparlamentare, sociale, con venature di plebeismo.
Solo un’ansia da bulimia di potere, infiocchettata da un ideologismo tradizionale della serie “pas d’ennesimo à gauche” – anche quando questa “gauche” a furia di sterzate a sinistra si ritrova sulle latitudini della destra -, poteva far scambiare per un movimento di sinistra il partito di Giuseppe Conte. Il quale, a onor del vero, ci ha sempre tenuto a prendere le distanze da ogni definizione che lo vedesse qualificato come esponente di “centrosinistra” o del “campo largo”, schifando ovviamente la qualifica di “riformista” (fortunatamente, si potrebbe aggiungere) per restare nella comoda placenta di un populismo zig-zagante.
Ma ci sono cinque passaggi chiave che ne raccontano la natura di destra del Movimento 5 Stelle di fattura grillesca prima e contiana poi, e che stanno riemergendo ogni volta che si affronta un tornante di questa complicata fase storica. Proviamo a vederli in sequenza, e offrirli (spes ultima dea!) alla riflessione di chi ancora dalle parti del Nazareno non ha sostituito gli slogan woke alla politica.
L’idea della democrazia
I grillini prima, e i contiani oggi, hanno in ubbia la democrazia rappresentativa. Ogni qual volta si è trattato di mettere mano alla riscrittura delle regole del gioco democratico, hanno travasato un’aliquota di antiparlamentarismo e antipartitismo: l’abolizione del vincolo di mandato, l’inutilità del voto di fiducia nella democrazia parlamentare, la democrazia diretta che sostituisce il decadente sistema dei partiti, la piattaforma on-line come luogo della formazione della sovranità popolare da trasferire ad un Parlamento muto e ratificante.
Sono questi i pilastri del Movimento 5 Stelle, che hanno raccontato e professato l’inutilità di un Parlamento che ovviamente – essendo inutile e composto da fannulloni mangiapane a tradimento – doveva essere ridotto, tagliato, umiliato.
Fu nel doppio passaggio della nascita del governo giallorosso, quando il Pd (c’ero anche io, per cui pro quota professo il “mea culpa” per un peccato di omissione che alla fedeltà di una battaglia specchiata preferì il silenzioso confronto interno abortito nel nome della mitica unità del partito) dapprima si acconciò a votare Conte presidente del Consiglio sacralizzando la logica degli uomini per tutte le stagioni, e successivamente accettò senza colpo ferire la modifica costituzionale di diminuzione del numero dei parlamentari senza farla precedere – come si sarebbe dovuto fare, e come inutilmente cercai di spiegare all’epoca – dalla riforma della legge elettorale.
Fanno tenerezza, oggi, i colleghi parlamentari grillini stracciarsi le vesti contro il premierato meloniano suonando le arpe della rappresentanza politica e della centralità parlamentare: sono stati loro ad aprire le porte al cavallo di Troia dell’antipolitica, lo hanno deificato, celebrato e osannato. Oggi che si raccolgono i frutti amari di quella stagione, per soli motivi tattici pensano di cavarsela giocando a specchio sulle proposte di riordino istituzionale.
Ma nella realtà, la loro idea di democrazia, il senso della rappresentanza come impiccio (da risolvere coi Dpcm notturni a reti unificate), la carica oppositiva alla legittimità dei sistemi politici tradizionali in ottica antiestablishment li accomuna alla destra. Conte ha cantato le lodi di Trump, nel suo primo viaggio negli States. E Giorgia Meloni, in cuor suo, sogna di poterlo fare tra un anno. In questo, sono uguali.
La carica anti Europa
La seconda “affinità elettiva” che allinea il populismo contiano al nazional-sovranismo di Meloni e Salvini lo ritroviamo sul terreno europeo. Senza riandare – come pure si dovrebbe fare – alla simpatia espressa da Beppe Grillo nei confronti di Nigel Farage sfociato anche in un tentativo di costituire un gruppo comune all’Europarlamento nel 2014, possiamo fermarci alle cronache degli ultimi giorni. L’allineamento dei pianeti anti-Europa alla Camera al momento della votazione sulla ratifica del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) ha visto il Movimento 5 stelle votare esattamente allo stesso modo di Fratelli d’Italia e Lega.
Tutto il coacervo di antieuropeismo, complottismo e pauperismo che durante il governo giallorosso aveva impedito dapprima la ratifica del MES, e di seguito l’attivazione dei 37 miliardi del MES sanitario che tanto sarebbero serviti alla nostra sanità, è riesploso al momento del dunque.
E nel voto della Camera, come hanno notato anche le cancellerie europee, si è rinsaldato l’antico asse gialloverde che aveva già dato prova di sé nel primo, indimenticabile scorcio della XVII legislatura. Il tutto avvenuto la settimana successiva a quella in cui il Pd aveva schierato tre leader di peso come Prodi, Letta e Gentiloni per rilanciare i temi dell’integrazione europea e della prospettiva di un rafforzamento delle istituzioni di Bruxelles, del mercato comune europeo, della prospettiva dell’unione bancaria e fiscale.
L’atteggiamento di Conte, poche ore dopo, è stato diametralmente opposto a quello richiesto, auspicato e suggerito dai “tre tenori” Dem. E sull’Europa e sul MES, alla resa dei conti, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte hanno votato allo stesso modo. Anche in questo, sono uguali.
L’immigrazione
C’è un altro tema chiave, oltre che particolarmente caldo, che allinea inevitabilmente sul versante destro i 5 stelle. Ed è il tema della gestione migratoria. Anche qui, senza riandare – come pure si dovrebbe fare – alla nota vicenda dei “Decreti Salvini” varati con Giuseppe Conte Presidente del Consiglio, con tanto di show mediatico dapprima e di amnesie a scoppio ritardato nelle vicende Gregoretti, Open Arms, Diciotti scoppiate quando probabilmente a Palazzo Chigi c’era un avatar dell’attuale leader del Movimento 5 Stelle, basta stare sull’attualità.
Davanti alle telecamere Vespiane della “terza camera della Repubblica”, Giuseppe Conte nel settembre 2023 è stato lapidario: “Il Pd è per l’accoglienza indiscriminata. Non è possibile, noi siamo per la terza via”. Al netto dell’inconsapevole richiamo blairiano di Conte, riemerge la sostanza destrorsa che immagina di affrontare il tema in maniera opposta al Nazareno: no allo ius soli, no alla logica dell’accoglienza, no alla sussidiarietà. Anche in questo, soprattutto in questo, Giuseppe Conte, Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono uguali.
No NATO, no Ucraina
Ma le affinità elettive che spingono il Movimento 5 Stelle sul versante di una destra sociale, populista e antieuropea, non si fermano qui. E abbracciano due questioni essenziali, per ogni prospettiva di alleanza di governo: la politica estera e l’atteggiamento in Ucraina. Le scelte compiute da Giuseppe Conte sulla vicenda ucraina lo collocano di diritto fra i partiti più filorussi del continente. Perché in politica, al di là delle parole fumose e dei sofismi baroccheggianti nei quali l’avvocato del popolo talvolta prova ad eccellere, contano le scelte che si fanno, i voti che si danno, le azioni concrete che si compiono.
E se le scelte di Conte fossero diventate le scelte di tutto il Parlamento italiano, e di tutti gli alleati atlantici, avremmo avuto un effetto, tanto consequenziale quanto drammatico: Vladimir Putin sarebbe entrato trionfalmente a Kiev, la Russia si sarebbe annessa l’Ucraina dopo averla aggredita militarmente, e l’Europa sarebbe stata soggiogata da una potenza militare ai propri confini pronta a rilanciare la pressione bellica nei confronti degli Stati baltici, dei Balcani e dell’area mediterranea.
Il nazionalismo putiniano, per la verità, ha abbacinato fin dall’inizio l’esperienza politica del Movimento 5 Stelle, così come ha influenzato e non poco la destra italiana nelle sue varie sfaccettature. E questo punto di contatto, con elementi di porosità e di osmosi talvolta evidenti talvolta non manifesti, è un ulteriore elemento di affinità tra il nazionalismo sovranista e il populismo contiano. Il quale, per sovrapprezzo, ci ha aggiunto recentemente anche una carica antiatlantica che lo rende competitivo sia sul versante dell’estrema destra che su quello dell’estrema sinistra, come si conviene ad un movimento populista.
Il Colle
The Last but not the least, se vogliamo ritrovare una straordinaria capacità di attrazione tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte possiamo andare ad una delle notti che hanno maggiormente segnato la cronaca, e la Storia, della nostra Repubblica.
La notte tra il 28 e il 29 gennaio 2022, quando mentre Beppe Grillo lanciava l’hashtag “UnaDonnaPresidente” e poi twittava in diretta televisiva “Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo #ElisabettaBelloni” Matteo Salvini e Giuseppe Conte – tentando di prendere in contropiede il Pd, Forza Italia, Leu e Italia Viva – confezionavano la candidatura di Elisabetta Belloni, capo del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, con il beneplacito di Giorgia Meloni.
Come andarono le cose è storia (quasi) nota, ma resta un punto irredimibile: al dunque di una vicenda-chiave, destinata a segnare la storia del Paese e il percorso della Repubblica, il “fortissimo punto di riferimento dei progressisti” non si sognò di chiudere un accordo con i Democratici, o con i riformisti, ma tentò – e per poco non ci riuscì – un blitz in piena regola alleandosi con nazionalisti e sovranisti, per portare al Colle una donna che siede al vertice dei servizi segreti, e che forse nel sabbia del voto segreto del giorno dopo sarebbe anche potuta andare incontro ad un insuccesso come accaduto due giorni prima alla Presidente del Senato, con tutte le conseguenze del caso. Quel che è certo, in ogni caso, è che in quel tornante della Storia Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si trovarono sullo stesso versante.
Finalino
Se su Europa, immigrazione, idea della democrazia, politica estera ed elezione del Presidente della Repubblica si tengono atteggiamenti sempre allineati con la destra, e sempre ostili alla sinistra e ai riformisti, serve una laurea alla Harvard University, un master a Princeton o una specializzazione ad Oxford per capire davvero la natura e l’identità del populismo del Movimento 5 Stelle?
Perché è dalle nostre opere, che ci riconosceranno…