Diritti calpestati
Uno studio pubblicato lo scorso 9 dicembre dal quotidiano britannico Guardian ha documentato che “la proporzione di morti civili nella Striscia di Gaza è superiore a quella di tutti i conflitti mondiali avvenuti nel 20° secolo”.
Un rapporto prodotto dall’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) ha mostrato che quello registrato a fine dicembre 2023 nella Striscia di Gaza è il “più alto livello di insicurezza alimentare mai registrato a livello mondiale”.
Questi e numerosi altri autorevoli rapporti e studi stanno facendo luce su alcuni dei contorni di quella che è a tutti gli effetti una delle catastrofi umanitarie più gravi della storia contemporanea: una catastrofe che sta peraltro avvenendo nell’unico contesto al mondo in cui una popolazione, in larga parte composta da bambini, non ha pressoché alcuna possibilità di fuggire.
In un siffatto quadro, la questione legata ai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane potrebbe apparire secondaria. Rappresenta tuttavia lo specchio di un problema strutturale che precede di molto la crisi attuale.
Stando a dati forniti dalle Nazioni Unite, nei tre mesi seguiti all’attacco compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre, sono stati arrestati oltre 5.600 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Come già accadeva nei decenni passati, molti di essi (almeno 3.000) sono detenuti in amministrazione detentiva – senza alcuna accusa né processo – e soggetti a torture documentate da Amnesty International e da numerose altre organizzazioni, sia israeliane che internazionali.
Per comprendere la dimensione del problema è opportuno rilevare che il territorio occupato palestinese rappresenta l’unica area al mondo in cui milioni di civili sono soggetti a tribunali militari da oltre 50 anni: stando a fonti ufficiali israeliani, il tasso di condanne per i palestinesi in questi tribunali è pari al 99,74%. Vale la pena ricordare che, secondo il diritto internazionale, la facoltà di perseguire civili in tribunali militari può essere contemplata solo ed esclusivamente su base temporanea.
In Cisgiordania operano due tribunali militari, la Corte di Ofer (nei pressi di Ramallah) e quella di Salem (vicino Jenin). I processi durano in media 10 minuti e si svolgono quasi esclusivamente in ebraico, una lingua che la maggior parte dei palestinesi in Cisgiordania non comprende.
Per converso, i civili israeliani che vivono negli insediamenti e negli avamposti in Cisgiordania – considerati illegali secondo il diritto internazionale e, in alcuni casi, anche dalla legge israeliana – sono soggetti a tribunali civili israeliani.
Sempre in Cisgiordania, i giovani palestinesi, compresi quanti hanno tra i 12 e i 15 anni di età, vengono processati in un tribunale militare minorile, con lo stesso personale e le medesime stanze utilizzate per gli adulti: si tratta dell’unico “tribunale militare minorile” al mondo.
L’impunità per i soldati e gli ufficiali israeliani è al contrario diffusa e ben documentata. Pene – per lo più molto leggere – vengono comminate a loro carico quasi sempre e solo nei rari casi in cui il video di una data violenza è disponibile e diventa virale: stando all’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din (“C’è giustizia”), la probabilità che una denuncia per danni arrecati a un palestinese da parte di un soldato si concluda con una condanna è pari allo “0,87%”.
Alcuni giustificano le questioni finora esposte – e, più in generale, un simile modo di operare – sostenendo in primo luogo che i palestinesi, a cominciare dai bambini, subiscano il lavaggio del cervello dai loro genitori e che siano spinti a glorificare e ad abbracciare la violenza.
Tale obiezione – oltre a essere non di rado infondata e volta a giustificare ex ante ogni possibile forma di abuso nei loro confronti – non tiene conto del fatto che lo slogan “uccidi gli arabi” (in ebraico “Mavet La-Aravim”) è ampiamente utilizzato in numerose manifestazioni pubbliche che coinvolgono giovani israeliani (sono disponibili decine di video al riguardo).
L’ostilità – e talvolta l’odio – nei riguardi dei palestinesi sono attivamente promossi (anche) nelle scuole israeliane, con risvolti visibili nelle famiglie stesse. È inoltre un fatto provato che la glorificazione della guerra e la giustificazione della violenza vengano regolarmente avallate e/o promosse tanto tra i giovani e i bambini israeliani quanto tra quelli palestinesi.
Tale duplice realtà legata all’ignoranza si alimenta non di rado di sentimenti radicati nell’odio reciproco. Essere consapevoli di un tale retroterra non dovrebbe tuttavia trasformarsi in un pretesto per ignorare il più ampio contesto che le fa da sfondo: c’è un esercito che impone un’occupazione militare e – sotto il suo ferreo controllo – ci sono milioni di civili che, da oltre mezzo secolo, vivono in un limbo giuridico che li spoglia dei più elementari diritti.
Agli occhi di chi la subisce, l’occupazione militare rappresenta una forma quotidiana di terrore e come tale viene contrastata e denunciata da un numero significativo di palestinesi (anche cristiani) e israeliani.
Ciò contribuisce a sollevare un problema ormai non più eludibile: le autorità israeliane dovrebbero chiarire in modo definitivo se la propria presenza oltre la cosiddetta “linea verde” rappresenti o meno un’occupazione militare. Se la risposta è negativa, i palestinesi non possono continuare a essere soggetti a una potenza militare che, nelle parole di Eyal Benvenisti, “ha stabilito un distinto governo militare in aree occupate in conformità con il quadro normativo della legge di occupazione”.
Se la risposta è per contro affermativa (ovvero siamo di fronte a un’occupazione, come peraltro sostiene la quasi totalità della comunità internazionale), ciò implica che le disposizioni contenute nella Quarta Convenzione dell’Aia – compreso il divieto di favorire il trasferimento di civili in un territorio occupato – vanno applicate in modo coerente.
Quanto appena sostenuto appare ancora più necessario se si tiene conto dell’impatto delle politiche israeliane in relazione allo sfruttamento delle risorse naturali locali: prassi esplicitamente vietate (anche) dalla stessa Convenzione dell’Aja. Basti qui ricordare che circa “il 94%” dei materiali prodotti annualmente nelle cave israeliane costruite in Cisgiordania è trasportato in Israele. A questo si aggiunga che “almeno il 72% degli aiuti internazionali” destinati ai palestinesi finisce nell’economia israeliana.
Chiunque non si esprima in modo netto per opporsi a queste e molte altre “anomalie” non rafforza né sostiene Israele, che ha il pieno diritto di prosperare, bensì lo indebolisce, avallando forme di oppressione strutturale, che danno linfa agli oltranzismi di tutte le parti in causa. “Una nazione che ne opprime un’altra”, notò l’intellettuale peruviano Dionisio Inca Yupanqui nel 1810, “forgia le proprie stesse catene”.
Immagine in anteprima: yigal zalmanson Pikiwiki Israel, CC BY 2.5, via Wikimedia Commons