Papaveri e papere
Ne “Il ducetto” (Rubbettino), Alessandro De Nicola immagina una realtà in cui l’Italia è rimasta neutrale durante la guerra e la scelta ha salvato il regime fascista: è il 26 ottobre 1952 e fervono i preparativi per i festeggiamenti dell’anniversario della Marcia su Roma
«All’armi! All’armi! All’armi siam fascisti, terror dei comunisti!» Era un po’ di giorni che per le strade bande di giovanotti in camicia nera, accompagnati da qualche riverito reduce antemarcia e dagli sfaccendati di turno (faningott in camisa nera, li chiamava il portinaio Giobatta) marciavano baldanzosi, con quell’innocua aria di sfida che possono permettersi le piccole rotelle di ingranaggi più grandi che donano loro un senso di importanza e appartenenza.
Mercoledì sarebbe stato il trentesimo anniversario della Marcia su Roma e l’inizio del XXXI anno dell’era fascista. Milano era addobbata a festa e per ogni dove spuntavano striscioni inneggianti al DVX, fasci littori, bandiere italiane e tutto l’armamentario della retorica patriottardo-fascista. Un rito sempre più triste, ma che in occasione del trentennale certi settori del Partito volevano rinvigorire per riprendere l’iniziativa politica.
Era lunedì, ma anziché risvegliarsi operosa e indaffarata nel lavoro giornaliero, la capitale ambrosiana era teatro di ferventi preparativi. La Gioventù Italiana del Littorio aveva organizzato imponenti esibizioni ginniche e paramilitari, le Giovani Italiane si esercitavano con danze e sfilate, i balilla e gli avanguardisti festosi provavano le loro manifestazioni e imparavano gli slogan che avrebbero declamato davanti al Conte Gian Galeazzo Ciano, Presidente del Consiglio.
In fondo Milano era ciò che Monaco di Baviera era stata per il nazionalsocialismo: la culla, il luogo dove tutto aveva avuto inizio. E, a differenza di Monaco, Milano non era inferiore economicamente e culturalmente alla Capitale, per quanta romanità il Duce avesse cercato di infondere all’Italia intera. E, soprattutto, Milano non era stata ridotta a un cumulo di macerie, una città fantasma che solo lentamente si stava riprendendo dagli orrori della guerra e dai bombardamenti a tappeto, ma anzi era intonsa e in crescita fiorente.
L’avvocato Scotti di Castiglione era in studio e si stava limando le unghie, seduta su una comoda poltrona, con le gambe appoggiate a uno sgabello imbottito. A parte il fatto che fino a giovedì era stato dichiarato un periodo di festa nazionale per le celebrazioni – questo non era importante perché gli avvocati lavorano sempre – comunque erano solo le 14:30 e il pomeriggio il padre e il fratello non riapparivano prima delle 16, dopo la mattinata al tribunale o all’università.
Quindi lei poteva godere di un po’ di pace, come la segretaria più giovane, Elvira che, liberata dalla severa sorveglianza dell’assistente storica del professor avvocato visconte Bernardo Scotti di Castiglione, poteva gustare alla radio Yves Montand che cantava C’est si bon e Nilla Pizzi che cinguettava Papaveri e papere.
La giovane Vittoria SdC, nata il 18 novembre 1918 (avrebbe potuto chiamarsi altrimenti?), aveva sul tavolo un caso di violenza domestica, un figlio ubriacone che picchiava la madre, e uno di truffa, in cui il suo assistito era stato accusato di essersi fatto dare un bel po’ di soldi da coppie anziane, vedovi e vedove con la promessa di riservare loro dei bellissimi appartamenti in costruzione a Santa Margherita Ligure. In effetti gli appartamenti c’erano, ma li stava costruendo qualcun altro.
Da “Il Ducetto”, di Alessandro De Nicola, Rubbettino, 254 pagine, 17,10 euro