La strage del 7 ottobre, le equiparazioni dello Stato israeliano a quello hitleriano, gli slogan ostili contro gli ebrei, le amnesie, i silenzi.
Quest’anno il Giorno della Memoria rischia di essere particolarmente doloroso per gli eredi diretti della Shoah. Doloroso perché sarà impossibile evitare l’associazione mentale con quanto è accaduto in Israele il 7 ottobre scorso, una strage di ebrei senza precedenti novecenteschi — eccezion fatta per la Notte dei cristalli del ’38 in Germania — se non in tempo di guerra.
Con l’evidenza del presagio che entrambi gli avvenimenti, eccidio nel kibbutz di Kfar Aza e Kristallnacht, portano con sé. Ma sarà angoscioso e ancor più straziante a causa del tentativo, già in atto, di far ricadere sugli ebrei del mondo intero la «colpa» per la successiva ritorsione israeliana su Gaza. Che ripropone l’equiparazione — in voga da anni, a destra come a sinistra — tra lo Stato hitleriano e quello fondato nel 1948 da Ben Gurion.
Tale equiparazione l’ha già fatta in modo esplicito l’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia di Bagno a Ripoli, un piccolo Comune in provincia di Firenze. Questo Comune ha convocato per il 27 gennaio una manifestazione dal titolo: «Mai più. Ottant’anni fa lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti; oggi il genocidio del popolo palestinese da parte dello Stato di Israele». Relatori: l’imam di Firenze Izzedin Elzir e il rappresentante della Comunità Palestinese toscana Bilal Murar.
Senza che nel manifesto di convocazione venisse, sia pur accidentalmente, menzionato l’orribile eccidio iniziale nei kibbutz. Senza poi che fosse invitata una qualche personalità del mondo israelitico (e, volendo, se ne sarebbero trovate) disponibile con la sua presenza a legittimare il tutto. Prontamente l’Anpi nazionale ha preso le distanze dall’iniziativa ma, nonostante ciò, è arduo immaginare che qualcosa di analogo non possa venir fuori da altre parti del nostro Paese.
Persino il quotidiano più filopalestinese d’Italia,il manifesto, qualche giorno fa ha riconosciuto (per la penna di Bruno Montesano) che da anni, «e oggi ancora di più», il Giorno della Memoria viene «usato come una clava contro gli ebrei». Tant’è che l’Unione delle comunità israelitiche aveva preso in considerazione l’idea di sottrarsi a qualsiasi evento pubblico.
E di ricordare i sei milioni di ebrei sterminati nella Shoah all’interno delle proprie comunità, «con le nostre preghiere, in modo lineare, rispettoso della loro sofferenza e memoria, delle nostre cicatrici come seconda e terza generazione». Lontano «dal clamore dei media». Poi invece, Noemi Di Segni e i dirigenti che sono a capo delle suddette comunità, hanno deciso di presenziare, come gli anni passati, alle manifestazioni pubbliche.
Consapevoli di ritrovarsi in un mondo che nei loro confronti ha via via cambiato atteggiamento. In peggio. Anno dopo anno, sempre di più. L’altro ieri alcune centinaia di persone hanno aggredito la fiera VicenzaOro provocando scontri con la polizia. Il loro scopo dichiarato era quello di solidarizzare con il popolo palestinese. Urlavano slogan assai critici nei confronti di Tel Aviv (e fin qui…) accompagnati da altri ostili tout court agli ebrei. L’obiettivo del corteo era l’inesistente stand di Israele.
Secondo il sindaco della città veneta, Giacomo Possamai (Pd), su 1.300 espositori, quelli provenienti dallo Stato ebraico erano tre. Tre. Qualche esponente del partito di Elly Schlein (in primis Piero Fassino) ha intravisto nell’accaduto i danni prodotti dalla «criminalizzazione di Israele» e dalla «diffusione delle pulsioni antisemite». Quelli più in sintonia con la segretaria si sono momentaneamente distratti.
Ripetiamo ancora una volta — ove mai ce ne fosse bisogno — che riteniamo del tutto legittima ogni critica persino la più estrema a qualsiasi atto del governo presieduto da Benjamin Netanyahu, così come di tutti quelli che lo hanno preceduto e di quelli che verranno. Del resto, un’eco possente di proteste dello stesso genere giunge anche da Israele. Ma qui è di altro che si sta parlando. Di mezze frasi (talvolta frasi intere) che, in manifestazioni a carattere mondiale, inneggiano al «lavoro che Hitler non ha avuto il tempo di portare a termine» e che adesso meriterebbe di essere «completato».
Nei Paesi mediorientali e in quelli sotto l’influenza iraniana, russa o cinese tutto ciò accade senza che le autorità pubbliche se ne diano pena. Talvolta approvano con convinzione. Ma anche nell’universo occidentale, dove pure i governi si pronunciano criticamente nei confronti di questo fenomeno, le istituzioni culturali si affrettano a mettersi al passo con i tempi nuovi. L’università di Cagliari ha anticipato le altre (quantomeno quelle italiane) nell’interrompere, su sollecitazione di studenti e corpo docente, ogni rapporto con quelle di Israele.
E il solerte rettore, Francesco Mola («mai andato in Israele, nel mio piccolo…», è il suo vanto), si è dovuto sorbire qualche rimbrotto per non aver stracciato all’istante l’ultimo accordo, quello con l’ateneo di Haifa. È «prossimo alla scadenza», si è giustificato Mola, e cancellarlo di punto in bianco «non è così semplice». In Germania, il Kammerchor di Berlino, uno dei cori più famosi del mondo, all’improvviso ha eliminato dal proprio programma l’oratorio di Georg Friedrich Händel «Israele in Egitto».
Scritto e cantato per la prima volta nel 1739. Il celebre oratorio ripercorre, come si evince dal titolo, la storia biblica della liberazione degli israeliti dal giogo del faraone. Non era opportuno, si sono giustificati i responsabili del coro, iniziare il nuovo anno con una rappresentazione di questo genere. Meglio mettere in scena qualcosa che abbia maggior sintonia con la «richiesta di pace».
È la prima volta che accade nei quasi tre secoli di vita di questa composizione. Brutti tempi per la celebrazione del Giorno della Memoria.