di GUGLIELMO BARONE, EMMA MANNESCHI E GIULIA ROMANI
INFRASTRUTTURE E TRASPORTI
La decisione del comune di Bologna di adottare il limite di 30 chilometri orari in gran parte della città è un esempio di come molto spesso si definiscono le politiche pubbliche in Italia. Mancano dati per valutare se si tratta della scelta migliore.
La scelta di Bologna
Dallo scorso luglio, nella maggior parte delle strade di Bologna vige un nuovo limite di velocità fissato a 30 chilometri orari, rispetto ai 50 chilometri all’ora prevalenti prima della riforma. Dal 16 gennaio il piano è ufficialmente attivo e sono scattate le prime multe per i trasgressori.
Non si tratta di un’iniziativa isolata, neanche in Italia: secondo il Sole24-Ore diversi capoluoghi di provincia hanno introdotto, in misura più o meno estesa, le cosiddette “zone 30”. È un tema politicamente caldo. Il Parlamento europeo da tempo sollecita le diverse realtà nazionali ad agire in questa direzione.
Al di qua delle Alpi, un progetto di legge a firma Pd, Avs, Azione-IV propone di rendere i 30 km/h il limite ordinario. Sotto le due torri, l’attuale sindacatura ha investito una dose importante di capitale politico su una policy di diffusa riduzione dei limiti (“Bologna città 30”). A nostro avviso, per le modalità con cui è stata realizzata, si tratta di una misura che racconta molto di come si decidono tante politiche in Italia.
Perché 30 km/h?
Perché “Bologna città 30”? Il sito dedicato all’iniziativa offre risposte nette: per migliorare la sicurezza stradale, ridurre l’inquinamento (compreso quello acustico) e i consumi energetici, incentivare la cosiddetta mobilità attiva (andare a piedi e in bicicletta), ridurre lo stress legato agli spostamenti, rendere la città più a misura di persona, aiutare l’economia locale.
Il tutto senza aumentare i tempi di percorrenza. Sono argomenti credibili? Qualche dubbio sorge: se alcune affermazioni sono vagamente supportate da “innumerevoli studi scientifici” o da report di organismi internazionali, altri nessi causali adombrati – come per esempio quelli sullo stress, sulla città a misura di persona, sullo stimolo all’economia locale – sono solo dei desiderata densi di rimandi valoriali, ma privi di supporto empirico.
Premesso che, rispetto ad altre politiche pubbliche, l’evidenza prodotta per questa iniziativa è comunque più ampia di quella solitamente disponibile (pari a zero), si poteva fare di più. Prima di estendere i 30 km/h all’intera città, il comune avrebbe potuto sperimentarli su piccola scala, proprio come si fa in medicina con farmaci e terapie di cui vogliamo conoscere gli effetti. La sperimentazione avrebbe potuto riguardare alcune porzioni di città, con altre zone comparabili come gruppo di controllo. In questo caso, poi, l’esperimento pilota sarebbe stato naturalmente offerto da alcuni limiti a 30 chilometri orari già presenti in città.
Organizzandosi per tempo, si sarebbero potuti raccogliere i dati su incidenti (inclusi quelli non gravi), inquinamento ambientale e acustico, modalità di trasporto, soddisfazione/stress dei cittadini, fatturato delle attività commerciali, tempi di percorrenza, e così via. Qualora un’analisi credibile di questi dati avesse confermato i tanti benefici narrati oggi (prima dell’attuazione della misura), sarebbe stato possibile estendere il nuovo limite al resto della città. Ne avrebbero guadagnato l’accountability dell’operato del pubblico, il rispetto dei cittadini, il processo democratico. Ma le cose non sono andate così.
Chi va piano va sano?
Col rimpianto della sperimentazione mancata, abbiamo stimato noi l’impatto delle zone 30 sull’incidentalità nel caso bolognese, sfruttando il fatto che già da qualche anno in alcune piccole porzioni di città è stato introdotto il limite a 30 km/h. Abbiamo quindi utilizzato i dati delle delibere comunali per ricostruire, per tutti gli archi stradali della rete urbana della città (un arco è una porzione di strada che collega due incroci o estremità), il giorno in cui il limite è stato portato a 30 km/h.
Per tutti gli altri archi il limite è rimasto a 50 km/h. Questi dati sono stati poi combinati con i dati mensili sugli incidenti per ciascun arco, forniti dalla città metropolitana. Si tratta di incidenti che hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine per la presenza di danni a persone. Il dataset finale contiene circa 7.500 archi osservati da gennaio 2014 a dicembre 2021.
La figura 1 mostra, per ciascun anno, la percentuale di archi soggetti al nuovo limite (archi “trattati”). Un arco stradale si considera trattato a partire da un certo anno se il limite di 30 km/h è stato introdotto nella prima metà dell’anno e quindi è stato in vigore per almeno sei mesi in quello stesso anno. Nel periodo considerato, si è avuta una progressiva estensione della policy, così che nel 2021 circa un quarto degli archi era trattato. L’estensione più significativa si è verificata nel terzo trimestre del 2015, nel quale si è concentrato il 60 per cento circa di tutti gli abbassamenti del limite.
Figura 1 – Percentuale di archi soggetti al limite di velocità di 30 km/h
Fonte: nostre elaborazioni su dati del comune di Bologna.
Queste informazioni hanno permesso di stimare l’impatto della misura attraverso il confronto della dinamica degli incidenti per gli archi trattati e quella osservata per gli archi per i quali il limite è rimasto invariato (“controlli”).
Nella figura 2, la linea rossa mostra l’andamento del numero di incidenti per le unità trattate a partire dal terzo trimestre del 2015 (la coorte di trattati più numerosa), mentre la linea blu riporta la stessa variabile per gli archi che per tutto il periodo sono rimasti con il limite a 50 km/h. La barra tratteggiata verticale segnale l’entrata in vigore del nuovo limite a 30 km/h per i trattati.
Nella media del periodo precedente il trattamento, nelle zone trattate in ogni trimestre si registrano poco più di sei incidenti ogni 100 archi, mentre il numero corrispondente per le unità di controllo è intorno a quattro su 100; nello stesso periodo, le due linee hanno un andamento piuttosto parallelo.
Se la policy avesse fatto diminuire gli incidenti, a partire dal terzo trimestre del 2015 si dovrebbe osservare un calo per la linea relativa ai trattati a fronte di una dinamica stabile per i controlli. Ma così non è: dopo l’inizio del trattamento, per entrambi i gruppi le due linee proseguono come prima, suggerendo che il nuovo limite a 30 km/h non ha portato a un calo dell’incidentalità.
Figura 2 – Numero di incidenti per trattati e controlli (media mobile su quattro trimestri)
La figura 3 generalizza il risultato a tutti gli archi trattati e mostra la stima della differenza tra il numero di incidenti per trattati e controlli (riportata sull’asse delle ordinate insieme agli intervalli di confidenza al 90 e al 95 per cento). Sull’asse delle ascisse si misura invece la distanza temporale in trimestri dall’avvio della policy (0 è il trimestre in cui viene adottata).
Sia prima che dopo dell’introduzione della misura non vi sono differenze significative tra trattati e controlli, a segnalare il fatto che il nuovo limite non ha fatto diminuire l’incidentalità. Il risultato è confermato da diversi test di robustezza, tra cui l’utilizzo di misure alternative per il numero di incidenti (per esempio normalizzandolo con la lunghezza dell’arco), il cambio della scala temporale utilizzata (mesi o semestri invece di trimestri) o l’applicazione di metodi econometrici che tengono esplicitamente conto del fatto che archi diversi sono trattati in momenti diversi.
Figura 3 – Differenza nel numero di incidenti tra archi trattati e di controllo, da dieci trimestri (e più) prima a dieci trimestri (e più) dopo l’introduzione del limite di velocità a 30km/h
Perché non è possibile valutare la misura
Un dato è chiaro: il limite a 30 chilometri orari introdotto a Bologna tra il 2015 e il 2021 non ha portato a un calo dell’incidentalità. Come spiegare questo risultato? Avanziamo qui alcune ipotesi che non si escludono a vicenda.
Una prima possibilità è che i dati a nostra disposizione, che riguardano incidenti con danni a persone, non permettano di catturare effetti sugli incidenti di minore gravità, quelli probabilmente più interessati dalla policy.
Una seconda possibilità è che il limite a 30 km/h sia una condizione di per sé non sufficiente per ridurre l’incidentalità, ma che vada accompagnato da una robusta azione di controllo del rispetto del limite di velocità che potrebbe essere mancata.
Una terza possibilità è che il limite sia stato introdotto in zone con incidentalità inferiore rispetto al gruppo di controllo (si veda per esempio la figura 2) e che, pertanto, fosse difficile osservare ulteriori miglioramenti. Purtroppo, non esistono le informazioni per dare risposta a queste legittime domande. Così come non riusciamo a dire nulla su altre variabili di interesse quali inquinamento, modalità di trasporto, soddisfazione/stress dei cittadini, fatturato delle attività commerciali, tempi di percorrenza, per le quali non esistono i dati.
Ma il punto centrale da sottolineare è proprio questo: le limitazioni della nostra analisi, di cui siamo pienamente consapevoli, ben prima di essere tali, sono mancanze nel disegno e nell’implementazione della policy. Non è stata assicurata la piena comparabilità tra archi stradali trattati e di controllo, non sono state raccolte moltissime informazioni cruciali, non è stato fatto un serio piano di valutazione. In altri termini, non sono state prese decisioni sostenute da quell’evidenza empirica che deriva dalle migliori pratiche della comunità scientifica.
E lo si sarebbe potuto fare con costi molto contenuti. Tutto ciò porta a scelte dagli effetti incerti e alla polarizzazione del dibattito politico, così che una domanda doverosa e puramente tecnico-fattuale – l’abbassamento dei limiti di velocità produce effetti desiderabili? – viene oscurata dalla politicizzazione e ideologizzazione delle zone 30 che vanno così ad arricchire, loro malgrado, la gloriosa collezione gaberiana di ciò che è di destra e ciò che è di sinistra. L’esatto opposto della necessaria laicizzazione del dibattito sulle politiche pubbliche.