di Maria Luisa Agnese
Il 27 gennaio si ricorda l’orrore dell’Olocausto.
A perpetrarlo furono i nazisti, di cui questo pseudo scienziato era un esponente di spicco. I piccoli ebrei erano le sue cavie, ma specialmente i gemelli sui quali egli compiva esperimenti aberranti
Quando scendevano dal treno i bambini venivano accolti da quel dondolare della mano guantata di bianco che a seconda di dove la portava il gesto, se a destra o a sinistra, segnava il loro destino. I gemelli soprattutto godevano di trattamento speciale e venivano sempre dirottati verso una capanna che almeno temporaneamente li sottraeva al forno. Forse la mano non era davvero guantata di bianco come la descrivono tutti i bambini di Auschwitz nei loro atroci ricordi infantili, ma la brutale freddezza del dottor
Mengele, passato alla storia di quegli anni orribili come angelo della morte, era sicuramente mascherata da una cortesia che ha segnato, attutendola, la loro memoria. Poi per i bambini, e per i gemelli soprattutto che erano materiale ideale per comparazioni pseudo scientifiche, cominciava la trafila “medica”, in ordine crescente verso l’orrore: prima la misurazione, poi le iniezioni, le amputazioni, le arbitrarie trasfusioni da gemello a gemello, le violazioni di organi.
“Merce” preziosa per l’aguzzino
Un giorno, si racconta nel documentario Rai La storia siamo noi sull’Angelo della morte, Josef Mengele aveva cucito insieme due gemelli (uno dei due aveva una gobba) spalla contro spalla, unendo pelle, mani, vene. «Era orribile: le ferite erano tutte piene di pus. Non riuscivano neppure a piangere, emettevano solo un lamento infinito» ha raccontato Vera Alexander deportata a Auschwitz.
Una volta i genitori di due gemelli zingari, Igris e Tigris, dopo tre giorni di questa agonia li hanno soffocati per liberarli dal tormento. Ma l’esempio estremo dell’indifferenza sfoggiata da Mengele avvenne durante un’epidemia di tifo che scoppiò nel campo: lui risolse rapidamente la situazione inviando alle camere a gas circa 1600 persone tra uomini, donne e bambini ebrei e rumeni. Altrettanto rapidamente le baracche furono disinfettate e occupate da nuovi prigionieri appena arrivati al campo.
La banalità del male
Tutto questo orrore soffocato e cinico avrebbe dovuto portargli, nelle sue ambiziose speranze, gloria e accademico riconoscimento. Rampollo di una famiglia benestante bavarese che produceva macchine agricole, Josef aveva studiato antropologia e medicina, aveva il pallino della genetica ed era diventato assistente del professor Otmar Freiherr von Verschuer che all’Istituto Kaiser Wilhelm di Francoforte conduceva studi sull’igiene razziale e la purezza ariana: e al giovane scienziato Mengele, febbrilmente affamato di gloria, Auschwitz era subito apparso come laboratorio ideale per i suoi esperimenti su povere cavie umane senza confine alcuno.
Si manifestava così in diretta crudele quella carneficina che avrebbe fatto balenare alla filosofa Anna Harendt l’idea della banalità del male. Niente di straordinario per chi lo provocava e lo praticava, il male, anzi in quella sospensione gelida di umanità e di diritti veniva quasi accolto come una nuova condizione normale dell’umanità. Una banalità che si è consumata e si alimenta tuttora nell’indifferenza e che va ricordata oggi, alla vigilia della celebrazione del Giorno della memoria delle vittime dell’Olocausto, il 27 gennaio.
Il clan Mengele
Per quanto paradossale possa sembrare, questo sentimento di noncuranza nei confronti del male lo ha confermato lo stesso figlio di Josef Mengele, Rolf: quando è andato a trovare il padre nella latitanza brasiliana ha trovato un uomo che dava un’immagine innocua e minimalista di sé come di un cittadino che aveva fatto solo il suo dovere: «Obbedivo agli ordini», gli ha detto, raccontandosi come un burocrate del dolore (altrui), in linea con il sentiment della maggioranza dei tedeschi di allora.
«Mengele si considerava un serio uomo di scienza che scandagliava i misteri dell’eredità per perfezionare il popolo. E Auschwitz lo aveva liberato da fastidiose inibizioni etiche» ha scritto il suo biografo David Marwell. E quasi neppure il figlio riusciva a essere indulgente con lui, anche se il Clan Mengele non ha mai consegnato Josef allo Stato: e come avrebbe potuto? Doveva mandare avanti l’industria di famiglia che ancor oggi dà da mangiare alla maggioranza dei cittadini di Günzburg.
Falso cittadino italiano
Quando tutto finì Mengele si trovò spiazzato: niente onori, niente istituto, niente trionfi scientifici. Il pendolo della storia per fortuna cominciava a battere da un’altra parte e lui doveva fuggire. Dopo Auschwitz, lavorò in Baviera in un’ azienda di materiali agricoli. Poi a Pasqua del 1949 scattò il suo piano per arrivare in Argentina, passò in Italia, rifugiato in Sud Tirolo dove si fermò per quattro settimane all’ hotel Goldenes Kreuz (Croce d’ oro) di Sterzing, fino a quando non fu dotato di un’ altra identità: «Helmut Gregor, nato a Termeno (Alto Adige), nazionalità italiana, professione meccanico, celibe, indirizzo via Vincenzo Ricci 3 Genova».
E via verso un nuovo continente, dove con alti e bassi era riuscito a sopravvivere anche grazie alla florida omertà familiare: è morto sulla spiaggia di Bertioga, a 100 chilometri da San Paolo, ucciso da un infarto mentre nuotava il 7 febbraio 1979, sempre schivando il giudizio dei Tribunali. Ma quello della Storia e dei posteri è senza appello.
(Un gruppo di SS fotografati nel loro quartiere fuori Auschwitz. Il secondo da sinistra è Josef Mengele. Questa immagine scattata nel 1944 proviene dal Holocaust Memorial Museum degli USA)