di Lorenzo Zilletti
Il conduttore di “Report”, ospite da Gruber a “Otto e mezzo”,
ha inanellato una serie di imprecisioni in materia di giustizia penale. Che sono passate del tutto inosservate…
Me l’ero persa. Per la verità, son parecchi anni che mi perdo la trasmissione Otto e mezzo condotta da Gruber. Eppure, c’è sempre un amico che ti fa: «Eh, no caro quella puntata lì non puoi proprio perdertela, almeno in un passaggio». Maledizione! Come non posso perdermela? So già che non mi piace per questo, questo e questo. Ma l’amico insiste e mi invia un video del 5 febbraio scorso, ospite d’onore Sigfrido Ranucci, anchor di Report (quello, me lo perdo sistematicamente da quando c’era Gabanelli…). Lo apro e punto al minuto segnalatomi.
La “Rossa” spara una domanda di quelle toste – «Sei preoccupato per la libertà di stampa, oggi, in Italia?» – che non mi sorprende, essendo nota la posizione dei giornalisti su quell’emendamento Costa che con disprezzo chiamano “legge bavaglio”.
È la risposta di Ranucci che mi affascina, al punto che non voglio privare i lettori del Dubbio dal conoscerla per esteso (mie, le sottolineature): «Sono preoccupato per il futuro, soprattutto per una serie di provvedimenti. A me preoccupa moltissimo la legge Cartabia, per esempio, la riforma del 2025. Noi da gennaio non potremmo parlare di persone che sono al centro di procedimenti penali fino a che non finisce il processo e neanche dei reati che ci sono dentro, descriverli con dei dettagli. Se i processi poi non si chiudono come stabilisce la Cartabia entro i due anni in appello o in un anno in cassazione, scatta l’improcedibilità, cioè il processo cessa. Non si potrà parlare di queste persone, non potremo parlare dei reati e ci sveglieremo in un mondo migliore senza aver fatto nulla per meritarcelo, ma soltanto perché non possiamo raccontare le nefandezze».
Per un nanosecondo, mi sono illuso che, in nome del diritto a informare e a essere informati ex art. 21 Cost. tanto sbandierato dalla categoria dei giornalisti, Gruber ristabilisse qualche punto fermo, così da consentire ai telespettatori di formarsi la propria opinione (qualunque essa fosse: critica o apologetica del progetto di limitare lo ius sputtanandi).
Scioccamente, durante quel nanosecondo, ho immaginato che si precisasse: a) che la riforma Cartabia della giustizia penale non coincide col decreto legislativo sulla presunzione di innocenza; b) che questo decreto regola le modalità con cui Procure e Polizia giudiziaria possono informare sugli arresti effettuati e sulle indagini svolte; c) che il 2025 non è termine per l’entrata in vigore di alcunché concerna l’informazione sui processi; d) che, se Ranucci voleva riferirsi all’emendamento Costa, questo riguarda il divieto di pubblicare integralmente le ordinanze cautelari, non certo quello di dare informazioni sui processi in corso e su chi vi sia imputato e a che titolo; e) che il divieto auspicato da Costa cade al momento della conclusione delle indagini o dell’udienza preliminare; f) che l’improcedibilità (a breve destinata a essere abrogata) per irragionevole durata delle fasi di impugnazione non ha alcun effetto sul diritto di cronaca e quello di informare il pubblico.
Viceversa, la Gruber se ne è uscita rincarando la dose: «Una cosa gravissima, più che grave», abbandonando così nel più profondo sconforto i suoi teleutenti, indotti a credere che cali un buio complice e illibertario sulle notizie in materia di giustizia penale.
Fine del video. Lo sapevo che mi sarei arrabbiato a constatare come è gestita l’informazione giudiziaria, anche dalle superstar più impegnate del giornalismo televisivo. E invece ho fatto bene a guardarlo, a dar retta all’amico.
Bisogna saperlo quanto si soffre a seguire certe trasmissioni, bisogna ricordarselo, perché poi quando te le perdi, godi. Non si gode mai abbastanza di quello che si perde, mai.