Se nel 1984 Michel Foucault fosse sopravvissuto all’aids e fosse rimasto in vita fino all’invenzione della triterapia, forse oggi avrebbe 93 anni: avrebbe accettato di rinchiudersi nel suo appartamento di rue de Vaugirard?
Il primo filosofo della storia a morire di complicazioni generate dal virus dell’immunodeficienza acquisita ci ha lasciato alcune delle nozioni più efficaci per riflettere sulla gestione politica dell’epidemia. Nozioni che, in mezzo al panico e alla disinformazione, si rivelano utili come una buona mascherina cognitiva.
La cosa più importante che abbiamo imparato da Foucault è che il corpo vivente (e dunque mortale) è l’oggetto al centro di ogni politica. Non esiste politica che non sia una politica dei corpi. Ma per Foucault, il corpo non è un organismo biologico già dato sul quale il potere agisce in un secondo momento. Il compito dell’azione politica consiste proprio nel fabbricare un corpo, nel metterlo al lavoro, nel definirne le modalità di produzione e di riproduzione, nel prefigurare le modalità di discorso con cui questo corpo s’immagina fino a quando non è in grado di dire “io”.
Tutta l’opera di Foucault può essere interpretata come un’analisi storica delle differenti tecniche attraverso le quali il potere gestisce la vita e la morte della popolazione. Tra il 1975 e il 1976, anni in cui pubblica Sorvegliare e punire e il primo volume della Storia della sessualità, Foucault usa la nozione di “biopolitica” per parlare del rapporto che il potere stabilisce con il corpo sociale nella modernità.
Descrive la transizione da quella che chiama “società sovrana” alla “società disciplinare” come il passaggio da una società che definisce la sovranità in termini di ritualizzazione della morte a una società che gestisce e massimizza la vita delle popolazioni in funzione dell’interesse nazionale … leggi tutto