Figli di Putin
La Russia non vuole negoziare la pace, figuriamoci un cessate il fuoco. I ventriloqui del Cremlino ripetono di voler distruggere Kyjiv per poi fare lo stesso in Moldavia, Armenia e gli altri paesi della vecchia Unione sovietica
La guerra in Ucraina è entrata nel terzo anno senza che si intraveda una possibilità di porre fine al conflitto, non attraverso un cessate il fuoco, né tantomeno con un trattato di pace. L’opinione di chi si definisce pacifista è che la soluzione sia a portata di mano, basta far accettare agli ucraini le conquiste territoriali della Russia – negandogli le forniture militari – in cambio di una garanzia di sicurezza paragonabile all’appartenenza alla Nato.
Questa convinzione però trascura completamente la natura coloniale dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina, e l’ideologia imperialista e anti-occidentale del regime di Vladimir Putin.
L’invasione iniziata il 24 febbraio 2022 infatti è solo l’ultima mossa della campagna ventennale di Putin per ripristinare il dominio di Mosca sui vicini che facevano parte prima dell’Impero russo e poi dell’Unione Sovietica, e impedire loro di stringere legami sempre più stretti con l’Occidente. Non che il Cremlino si sforzi di nascondere le sue ambizioni.
Nelle ultime settimane la Russia ha minacciato esplicitamente la Moldavia sfruttando una delle tante enclavi separatiste filorusse all’interno di un Paese dello spazio post-sovietico. La regione separatista della Transnistria ha chiesto a Mosca di proteggerla dalle pressioni moldave, seguendo un copione che dall’invasione della Georgia del 2008 continua a ripetersi.
Stavolta è improbabile che si verifichi un’altra “operazione militare speciale”, poiché per raggiungere la Transnistria i russi dovrebbero attraversare lo spazio areo dell’Ucraina o della Romania, membro della Nato. Tuttavia, per Mosca la pressione nei confronti di Chisinau serve a rivendicare quello che considera un diritto di supremazia sul futuro di questo Paese, e manifestare disapprovazione per le decisioni del governo di Maia Sandu. «Il regime moldavo sta seguendo le orme del regime di Kyjiv», ha commentato con tono minaccioso il ministro degli Esteri Sergei Lavrov.
Il caso della Moldavia è emblematico, perché prima del 24 febbraio 2022 questo piccolo e povero Paese tra Ucraina e Romania non aveva mostrato interesse per l’adesione all’Unione europea. Poche settimane dopo l’inizio della guerra invece Sandu ha inoltrato la richiesta di adesione, insieme a Volodymyr Zelensky.
Anche l’Armenia è finita nella lista dei Paesi da riportare alla disciplina, segnando una frattura tra quello che una volta era uno dei pochi Paesi dello spazio post-sovietico sinceramente in buoni rapporti con Mosca. «Gli armeni devono capire che se lasciano al governo il premier Nikol Pashinyan entro cinque anni non ci sarà più nessuna Armenia», ha detto a un grande evento rivolto ai giovani russi Margarita Simonyan, una delle principali propagandiste del Cremlino.
La velata allusione a un colpo di Stato a Yerevan si riferisce alla volontà di Pashinyan di uscire dall’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), ovvero il patto di sicurezza della Russia con alcuni Paesi dello spazio post-sovietico, per seguire un percorso più indipendente e filo-occidentale.
La decisione dell’Armenia è una conseguenza del disinteresse del Cremlino per la questione del Nagorno-Karabakh, enclave separatista armena all’interno dell’Azerbajan smantellata da un’offensiva azera a settembre dell’anno scorso, con la sostanziale approvazione dei peace-keeper russi schierati nella regione per proteggere la popolazione locale.
Mosca non ha fatto niente per impedire la disfatta e l’umiliazione del suo alleato, e anzi, ha sostenuto la posizione di Baku e Ankara mentre più di centomila armeni del Nagorno-Karabakh venivano costretti all’esodo.
Ma l’immagine più rappresentativa della totale inaffidabilità del regime di Putin è stata offerta ieri da Dmitry Medvedev, che per quanto risulti stravagante (per non dire ridicolo) rimane un ex presidente della Federazione Russa ed è il vice-presidente del Consiglio di sicurezza nazionale russo. Intervenendo allo stesso evento in cui ha parlato Simonyan con indosso una tunica in stile nordcoreano, ha affermato che il concetto di ucraini e russi come due popoli distinti dovrebbe sparire per sempre.
«L’Ucraina è senza dubbio Russia. Il nostro spazio geostrategico è indivisibile sin dai tempi dell’antico Stato russo» ha detto Medvedev, mostrando una mappa di quelli che dovrebbero essere i confini ucraini.
Nella mappa – che probabilmente verrà riproposta in qualche rivista di geopolitica italiana – la parte occidentale dell’Ucraina è smembrata e annessa fantasiosamente tra la Romania e la Polonia, i confini ucraini sono ridotti alla regione di Kyjiv, e la parte orientale è totalmente annessa alla Russia. Le parole di Medvedev sono state rilanciate anche dalla versione in inglese dell’agenzia di stampa russa Tass, come se il Cremlino volesse assicurarsi che il messaggio non passasse inosservato nel resto del mondo.
Se non ci fosse di mezzo la morte di centinaia di migliaia di persone e lo sfollamento di milioni di ucraini ci sarebbe quasi da ridere, ma la realtà è che dietro queste affermazioni e rappresentazioni deliranti c’è la minaccia più grande all’ordine internazionale e alla sicurezza in Europa dal dopoguerra.
La Russia non ha nessuna volontà di negoziare una pace o un cessate il fuoco permanente con l’Ucraina per il semplice motivo che il regime di Putin non ha alcuna volontà di riconoscere agli ucraini, né al resto dello spazio post-sovietico, il diritto di esistere da nazioni indipendenti, soprattutto se libere e democratiche.