Ucraina: l’Europa non perda tempo (corriere.it)

di Paolo Mieli
Manca la piena consapevolezza della piega che 
sta prendendo il confronto armato con la Russia 
di Putin. 
Né della possibilità che tale il conflitto oltrepassi i confini dell’Ucraina e metta qualche Paese europeo (e con esso l’Europa tutta) con le spalle al muro

Nel giorno in cui papa Francesco esorta l’Ucraina a prendere atto di aver perso e, sia pure imbeccato dall’intervistatore, ricorre all’immagine della «bandiera bianca», l’Europa intera deve capire che qualcosa è cambiato e ancor più cambierà. «Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare», dice apertamente il Santo Padre.E l’Europa a che punto è? Non c’è cosa peggiore in politica internazionale delle dichiarazioni d’intenti a cui non seguano fatti.

A fine febbraio Ursula von der Leyen ha proposto all’Europa di muoversi nel settore della difesa come già fece ai tempi del Covid: di dar vita, cioè, ad una piattaforma comune del tipo di quella che servì per comprare i vaccini tutti assieme, e non Paese per Paese.

Così come fece poi — a guerra d’Ucraina iniziata — per l’acquisto del gas che avrebbe dovuto sostituire quello russo messo al bando dall’intera comunità. In molti hanno esultato, nella convinzione che le parole della presidente ponessero, una volta per tutte, le basi per la creazione del più volte evocato «esercito europeo». Nessun presentimento in lei delle parole del Pontefice.

Pochi giorni dopo, a Praga, Emmanuel Macron è tornato a suo modo su questo tema. Ha esortato l’Europa a non comportarsi da «vigliacca» rivolgendosi, nel caso, a Paesi fuori dai confini continentali per acquistare le forniture militari invocate disperatamente dall’Ucraina. La Russia, ha specificato il presidente francese, «non può né deve vincere questa guerra: sosterremo il popolo ucraino e il suo esercito finché sarà necessario». Una sorta di «Whatever It Takes» a favore della causa di Kiev.

Dopodiché, però, non se ne è saputo più niente. O, meglio, l’attenzione generale si è spostata sulla conversazione rubata — dai russi — ad alti ufficiali tedeschi (per colpa di uno di loro che parlava in teleconferenza da una stanza d’albergo di Singapore servendosi di una linea non criptata).

Da questa chiacchierata informale veniva fuori lo stupore di tutti i partecipanti a fronte dell’inspiegabile riluttanza del cancelliere Olaf Scholz a consegnare agli ucraini i missili Taurus. Armi richieste non già in vista di nuove offensive ma per non soccombere a fronte di quelle nemiche. La perplessità su questo atteggiamento di Scholz, che non lo ha smentito, avrebbe coinvolto addirittura il capo di stato maggiore dell’aeronautica tedesca Ingo Gerhartz.

Poi, a seguito di avventate dichiarazioni dello stesso Macron, si è acceso uno stravagante dibattito sulla presenza o meno di «istruttori» inglesi e francesi in territorio ucraino. Infine, un bel missile russo è «caduto» ad appena 200 metri da Volodymyr Zelensky e il premier greco Kyriakos Mitsotakis. I quali erano in visita a Odessa (un’iniziativa di cui le fonti ufficiali non avevano dato notizia) per constatare i danni provocati da precedenti bombe inviate da Mosca.

Sul Financial Times, Constanze Stelzenmüller ha messo in guardia dai pericoli provocati da questa «confusione» che — a dispetto delle intenzioni di Macron da lei deriso come «contorsionista» — rischia di avvalorare le tesi dei trumpiani più oltranzisti, i quali sostengono che l’Europa è capace solo di produrre chiacchiere e anche per questo va abbandonata immediatamente al proprio destino. Anche a costo di far prevalere Putin.

Sulle colonne di questo giornale Maurizio Ferrera si è mostrato più ottimista, quantomeno nei confronti dell’annunciata agenda di Ursula von der Leyen. Pur facendo rilevare, Ferrera, che, circa questa agenda, il manifesto dei socialisti europei è un po’ generico («si limita a pochi cenni») mentre quello dei popolari contiene indicazioni più dettagliate.

Ma, anche a condividere come noi condividiamo questa analisi, c’è da rilevare che il modo dei popolari tedeschi di indicare von der Leyen come proprio Spizenkandidat per un secondo mandato alla guida della Commissione europea è stato piuttosto incerto (ha votato per lei meno della metà degli 801 delegati). E tutti, ma proprio tutti, gli osservatori tedeschi hanno messo in grande evidenza questa esitazione.

Nei giorni successivi sono poi piovute addosso a von der Leyen le critiche di coloro (eccezion fatta, va notato, per Giorgia Meloni) che le avevano votato contro nel 2019. Ma anche quelle di due «amici»: il commissario europeo al Mercato Interno Thierry Breton (grande amico di Macron) e il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner («L’Europa ha bisogno di meno von der Leyen», ha detto, «e di più libertà»). Rilievi, pur motivati da questioni che non riguardano la difesa europea, destinati a indebolirne la candidatura.

Segni questi che l’Europa non ha piena consapevolezza della piega che sta prendendo il confronto armato con la Russia di Putin. Né della possibilità che tale il conflitto oltrepassi i confini dell’Ucraina e metta qualche Paese europeo (e con esso l’Europa tutta) con le spalle al muro.

Anche solo per un incidente, un imprevisto come del resto fu l’attentato di Sarajevo nel 1914. E non sia conscio di ciò che questo potrebbe comportare soprattutto nel caso le elezioni americane del prossimo novembre siano vinte da Donald Trump.

Ed è questo il punto: l’Europa stavolta non può permettersi chiacchiere a vuoto; non può più consentirsi di dire per poi disdire; deve assumere decisioni immediatamente operative che consentano a Zelensky di riprendere in mano l’iniziativa. O quantomeno non soccombere. Ma lo deve fare entro il prossimo 5 novembre, giorno in cui Biden sarà forse costretto a uscire di scena. Non oltre.

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