I «grazie» che dobbiamo a Kiev (corriere.it)

di Goffredo Buccini
Zelensky ha rubato due anni ai disegni imperiali 
dello zar di Mosca e li ha regalati a noi

Al di là delle rassicurazioni formali, è dura credere alla casualità dell’attacco missilistico russo piovuto giorni fa su Odessa a poche centinaia di metri da Zelensky e dal premier greco Mitsotakis in visita: un’azione dalle conseguenze potenzialmente assai gravi anche per il coinvolgimento della Nato, di cui la Grecia è membro.

Il segnale è chiaro, comunque. Il piccolo comico di Kiev, divenuto eroe popolare, resta bersaglio principe di Putin, perché ha fatto qualcosa che difficilmente lo zar di Mosca potrà perdonargli. Ha rubato due anni ai suoi disegni imperiali e li ha regalati a noi. E, nonostante il crollo nei consensi internazionali e gli autorevoli inviti ad alzare bandiera bianca, continua a farci guadagnare tempo prezioso.

Lungo è l’elenco degli scenari sui quali la resistenza ucraina ha bloccato le lancette nell’interesse delle democrazie. L’ultimo è la Transnistria, tornata a infiammarsi a fine febbraio, quando il parlamento della autoproclamata repubblica filorussa ha chiesto «aiuto» a Mosca contro la pretesa invadenza della Moldavia (di cui la Transnistria è parte).

La Russia sta scaldando i muscoli ma fatica a impegnarsi adesso su un altro fronte (che passerebbe peraltro proprio dal corridoio di Odessa). Si va riproponendo in fotocopia lo schema che ha condotto Putin in Donbass e prima ancora in Crimea, ed è mutuato dal canonico pretesto sovietico per invadere Ungheria e Cecoslovacchia: l’aiuto «fraterno». Il popolo russo e le entità russofone sono assai più grandi degli attuali confini della Federazione e dunque tocca… riallargare quei confini.

Chi in buonafede predica pace dovrebbe partire da questa semplice constatazione. La Transnistria è in mano a una gang finanziata e armata da Mosca ed è un museo a cielo aperto del comunismo sovietico. Ma non è folclore. È un monito. Gli eventi laggiù sarebbero precipitati già nel 2022 senza la sorprendente risposta dell’Ucraina all’invasione. Dunque, la sedicente repubblichetta putiniana ci dice molto sul grado di riconoscenza che dovremmo a Zelensky per avere rifiutato il famoso «passaggio aereo» offertogli da Biden all’indomani dell’aggressione russa.

E non è certo la sola né la maggiore casella geopolitica in questione. Cosa sarebbe successo se il leader ucraino fosse scappato e i suoi si fossero arresi in quei giorni di fine febbraio 2022? Almeno altri nove scenari sarebbero mutati sul campo e nelle cancellerie.

Avremmo visto in una settimana i soldati russi sfilare nelle piazze di Kiev con le uniformi da parata che avevano negli zaini, alimentando la balla retorica della «denazificazione» e dando in realtà una grossa mano alla causa delle autocrazie che guardano a Putin. E avrebbe trovato consacrazione pratica il Russkij Mir, la teoria dello spazio russo alla base del putinismo che tanto somiglia al Lebensraum, quello sì, nazista.

Svezia e Finlandia non avrebbero fatto in tempo ad attivare il loro meccanismo di adesione alla Nato, che ha rilanciato l’Alleanza Atlantica, prima del febbraio 2022 data in stato comatoso da Macron e ora impegnata in imponenti esercitazioni a poca distanza dalla Russia. La Lituania e la Polonia, membri Nato con l’exclave di Kaliningrad incuneata tra loro, si sarebbero trovate Putin immediatamente alle porte.

A causa della Transnistria, il destino sacrificale della Moldavia si sarebbe compiuto per primo: di conseguenza il Paese soggiogato giammai avrebbe avanzato richiesta di entrata nella Ue (e men che meno l’avrebbe fatto l’Ucraina, s’intende).

Soprattutto, Putin avrebbe avuto ancora la sua forza militare pressoché intatta da puntare sull’Europa (si stima oggi che abbia perso 300 mila uomini e per rimpinguare il proprio arsenale militare è stato costretto a trasformare la Russia in un’economia di guerra, scelta che alla lunga peserà non poco sulla tenuta interna). E L’Europa non avrebbe attivato i propri meccanismi di solidarietà verso l’Ucraina, i tredici pacchetti di sanzioni alla Russia: non ci sarebbe stata nessuna risposta comune, nemmeno simbolica.

Neppure sarebbe mai stata abbozzata la politica di difesa europea che adesso comincia a delinearsi, benché fra mille tentennamenti residui: riforma dell’European Peace Facility; spesa comune o almeno coordinata e dibattito aperto sugli eurobond con cui finanziare una forza armata continentale; un supercommissario alla Difesa e il passaggio di Ursula von der Leyen dall’«European green deal» a un «European security deal».

Da ultimo, ma non meno importante, sarebbe cresciuto l’impatto delle forze sovraniste e russofile che nei Paesi democratici avrebbero così influenzato più pesantemente di quanto già non facciano le scelte dei governi europei all’avvicinarsi delle elezioni del 2024.

Sono giorni duri, questi, a Kiev. Passata l’epopea resistenziale, è il tempo delle divisioni, dei renitenti e degli imboscati, dell’assenza di una strategia motivazionale prima ancora che dei denari per metterla in atto. Da generale Della Rovere ucraino, Zelensky s’è mutato secondo molti in una specie di cupo Macbeth che rimuove chi intralcia il suo potere (il popolarissimo generale Zaluzhny, in primis).

Ma le ragioni per ringraziarlo sono scritte nella storia e in fondo anche nei persistenti tentativi dei russi di eliminarlo. La ragione più forte è che ci ha mostrato come la libertà non sia un pasto gratuito ma una conquista quotidiana.

Rammentarlo ogni tanto sarebbe il minimo per onorare i due anni di respiro che quell’eroe per caso ci ha concesso.

(Tina Hartung)

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