di Michele Magno
Dopo l'attentato al Crocus City Hall sono bastate poche ore per organizzare sui social un gigantesca campagna propagandistica,
volta a dirottare la responsabilità del massacro sui «terroristi» al soldo di Zelensky
Ha scritto Theodor W. Adorno che «la traduzione di tutti i problemi di verità in problemi di potere non si limita a reprimerla e a soffocarla come nei regimi dispotici di una volta, ma ha investito nel suo nocciolo più intimo la disgiunzione del vero e del falso, che, del resto, i mercenari della nuova logica contribuiscono a liquidare» («Minima moralia. Meditazioni della vita offesa» [1951], Einaudi, 1994).
Adorno denunciava così, subito dopo la sconfitta del Terzo Reich, l’arte di confondere verità e menzogna in cui erano maestri i nazisti.
Qualcosa di analogo sta accadendo oggi, dopo l’attentato al Crocus City Hall di Mosca. Sono bastate poche ore per organizzare sui social un gigantesca campagna propagandistica, volta a dirottare la responsabilità del massacro sui «terroristi» al soldo di Volodymyr Zelensky.
Come stanno reagendo, di fronte al cinico immoralismo del Cremlino, le associazioni del mondo religioso, sindacale e del volontariato, i partiti della sinistra d’antan, il neomovimento antimilitarista di Giuseppe Conte, gli intellettuali e gli opinionisti della realpolitk («in guerra non vince il giusto, ma il più forte»)?
Per lo più, come recita un brano dei Maneskin, «Zitti e buoni». Beninteso, ci sono anche quelli ciarlieri, i mercenari della nuova logica, dello scambio tra vero e falso, di cui parlava Adorno. I più spregiudicati, tra i quali spicca la penna di Marco Travaglio, sollevano astutamente dubbi, seminano incertezze, formulano sottili tesi sul «cui prodest» la carneficina per metterne in discussione la paternità jihadista.
È lo stesso mondo variegato che chiede incessantemente l’apertura di un negoziato di pace (i più sornioni aggiungono «giusta») tra Kyiv e Mosca. Quali sono però le sue condizioni «giuste»? Non vengono mai specificate, forse perché resta ancora un briciolo di ipocrita pudicizia nell’usare apertamente la parola «resa».
Ma immaginiamo pure che si arrivi a una tregua, magari grazie, come auspica Romano Prodi, a una tiratina d’orecchie di Xi Jinping al suo omologo appena rieletto, che nel frattempo, in tandem col suo grottesco sottopancia Dmitri Medvedev, non cessa di agitare lo spettro di un conflitto planetario.
L’Ucraina resterebbe con le sue rovine urbane e industriali, le sue infrastrutture civili distrutte, il suo territorio devastato, le sue migliaia di morti, le sue famiglie smembrate, i suoi giganteschi problemi di ricostruzione.
In questo quadro, quali sono le condizioni di una pace giusta? Qui casca l’asino. Possono prescindere dal ritiro dell’esercito invasore dalle oblast annesse con referendum farsa e dalla riparazione dei danni di guerra? Possono, ma solo se si consente con l’adagio di Erasmo da Rotterdam, secondo cui «la pace più ingiusta è migliore della guerra più giusta» («Querula pacis», 1517).
Non bisogna menarne scandalo, perché in Italia c’è chi marcia per la pace e chi sulla pace ci marcia. L’alba del nuovo movimento pacifista in Italia vide simbolicamente la luce il 24 settembre 1961. In quel giorno si svolse la prima «Marcia per pace e la fratellanza fra i popoli» da Perugia ad Assisi. Ideata e organizzata da Aldo Capitini, intendeva unire con il verbo del gandhismo le tre culture storiche del pacifismo novecentesco: socialcomunista, cattolica e radicale.
Dalle lotte per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, poi introdotta per legge nel 1972, fino al sostegno dei movimenti no global nel passaggio del secolo, la sua stella polare è sempre stata la stessa: tutte le guerre sono l’altra faccia del neoliberismo e la minaccia nucleare incombe sul pianeta. Già, ma chi è oggi che minaccia?
Il suo nome non viene mai pronunciato. D’altra parte, si può credere sul serio che, cedendo al ricatto di un tiranno, costui diventerebbe più indulgente? Accadrebbe esattamente il contrario, e i paesi che hanno conosciuto il tallone dell’Urss lo sanno bene.